Panorama economico-sociale
Volendo richiamare, anche in un’estrema sintesi, alcuni tra i problemi più importanti della Sardegna alla nascita dell’istituto autonomistico (1949) e nel successivo venticinquennio, poniamo in primo piano le condizioni di grave arretratezza sociale ed economica dell’Isola rispetto ad altre regioni italiane, condivise dall’intero Mezzogiorno, anche se va subito citata la battaglia, definita da più parti epica, combattuta fino al 1955 per l’eradicazione totale della millenaria piaga della malaria derivante dalla diffusione della zanzara anofele, con un concorso di energie finanziarie e umane che portò alla fine di quel flagello.
Il tradizionale settore portante dell’economia sarda, quello agro-pastorale, fu inevitabilmente condizionato dall’andamento del mercato nazionale ed internazionale, che vide un forte sviluppo dell’industrializzazione e, nello stesso tempo, l’ammodernamento delle tecnologie di lavorazione della terra e di allevamento del bestiame, in cui i ritardi furono pagati a caro prezzo. In Sardegna, come del resto in altre aree del Paese, soprattutto del Sud, si registrò un vasto movimento di massa teso allo sfruttamento di vaste estensioni di terreno incolto, in mano a latifondisti e a proprietari assenteisti, con scontri duri tra braccianti e forze di polizia, che portarono più volte ad arresti e in alcuni casi al sangue e alla morte. Rispetto, comunque, ai mutamenti, pur lenti, dell’economia agricola, quella pastorale continuò a lungo a mostrarsi restia alle trasformazioni, condizionata fortemente dallo stesso andamento climatico fino a tempi molto recenti.
Nel 1951 fu istituito l’ETFAS, l’Ente di trasformazione fondiaria agraria dell’Isola, e nel corso degli anni immediatamente successivi furono distribuiti 84.284 ettari di terre incolte, pari al 30% dei terreni dati a livello nazionale. L’ETFAS assegnò 3.926 poderi per complessivi 65.271 ettari. Si contavano 3.270 trattori, raddoppiarono le colture foraggere. Crebbe gradualmente, nel contempo, la superficie irrigata, grazie alla costruzione di una serie di bacini artificiali in zone diverse dell’Isola, quasi esclusivamente di pianura. Cominciarono ad affacciarsi le prime forme di cooperazione e le prime colture specializzate. Nel quinquennio 1954-1959 l’occupazione nel settore agricolo crebbe in modo significativo da 175.000 a 200.000 unità. Nel decennio 1952-1962 la produzione lorda vendibile crebbe ad un tasso medio annuo del 5,5%, superiore a quello registrato nel resto d’Italia.
Nel settore minerario, invece, particolarmente importante nell’economia sarda soprattutto a partire dalla metà dell’Ottocento (con l’intervento di grosse società straniere nell’attività di estrazione di piombo e zinco), tra il 1951 e il 1958 si registrò un notevole decremento, con un calo da 10.087 a 6.587 addetti, dovuto in gran parte all’andamento del mercato internazionale.
Un sensibile aumento di addetti si verificò nel settore delle costruzioni, in cui i lavoratori passarono da 24.000 a 55.000 e ciò fu in gran parte dovuto al forte flusso di inurbamento dai centri rurali ai capoluoghi di provincia e ai centri abitati più grossi.
Un altro settore in crescita fu quello del turismo, grazie anche all’attenzione che sulla Sardegna (definita ancora “isola dimenticata” e “sconosciuta”) si riversò da parte di molta stampa italiana e straniera nel corso di quegli anni. La Regione istituì nel 1950 l’ESIT (Ente Sardo Industrie Turistiche) con il compito di promuovere il settore. Nel quinquennio successivo i turisti stranieri aumentarono di 25 volte.
La disoccupazione, però, aumentò sensibilmente: nel solo biennio 1953-1955 i disoccupati passarono da 44.000 a 55.000. Negli anni successivi si accentuò, così, drammaticamente il fenomeno dell’emigrazione che già nel passato aveva segnato il destino dell’Isola. Iniziò, anzi, e sarebbe proseguito per buona parte degli anni ’60, il periodo più negativo di tale fenomeno, con un ininterrotto flusso di partenze (di circa 300.000 sardi) verso il Belgio e la Germania, oltre che verso le aree del triangolo industriale del Nord-Italia e verso Roma. Molti di loro non ritorneranno più a lavorare in Sardegna.
Negli anni ’60 il tasso medio di crescita del settore agricolo scende al 2% annuo, mentre aumenta il tasso di invecchiamento degli addetti (i giovani preferiscono emigrare o comunque abbandonano il settore). Diminuiscono sensibilmente le superfici destinate alla coltura cerealicola e al pascolo, mentre aumentano quelle delle colture foraggere, della barbabietola da zucchero e della vite. Aumenta anche il numero delle aziende con una superficie superiore ai 50 ettari, comprese quelle destinate all’allevamento bovino. Nel complesso, nel trentennio 1950-1980 il patrimonio zootecnico è aumentato del 17% e quella del latte del 117% (in massima parte per l’aumento della produzione lattea bovina).
Per quanto concerne il settore industriale, nei primi anni ’60 si affacciano all’orizzonte nuove iniziative: nel 1961 nasce la Cartiera di Arbatax; nel 1962 inizia la sua attività la SIR dell’ing. Nino Rovelli a Porto Torres, grazie ai molti miliardi di mutui concessi dal CIS e dall’IMI; nel 1963 nasce a Sarroch la raffineria della SARAS del petroliere Angelo Moratti. Un altro complesso petrolchimico nasce ad Assemini ed uno per la produzione di fibre tessili artificiali a Villacidro. In tutte queste iniziative si registra, però, l’assenza di coinvolgimento dell’imprenditoria locale. Inoltre, a causa dell’elevato rapporto capitale/prodotto, gli effetti sul reddito sono relativamente ridotti. Infine, gli squilibri territoriali derivanti dalla localizzazione delle industrie in alcune aree con esclusione di altre provocheranno forti reazioni popolari sul finire degli anni ‘60.
Nello stesso periodo il settore estrattivo continua a subire una crisi che appare ormai irreversibile e che provoca un ulteriore calo di occupati, nonostante l’apporto di ingenti risorse finanziarie pubbliche per mantenere in vita le aziende operanti nel settore. Nell’insieme, il 50% dell’occupazione industriale è coperto dall’attività edilizia, che continua a tenere.
Sul fronte del turismo, si assiste alla nascita, nel 1961, del Consorzio Costa Smeralda guidato dal principe Aga Khan, che trasformerà rapidamente e sensibilmente una vasta area costiera della Sardegna nord-orientale. Nel 1964 la Regione Sardegna, con l’approvazione della legge n° 8, propone una serie di agevolazioni creditizie particolarmente favorevoli alla creazione di una rete alberghiera, che crea, però, un’occupazione molto modesta e si traduce in gran parte in operazioni immobiliari.
La battaglia politica più rilevante sul piano regionale resta, per tutti gli anni ’50 e poi ancora nei primissimi anni ’60, quella per l’approvazione del Piano di Rinascita, previsto dall’art. 13 dello Statuto approvato con legge costituzionale n. 3 nel febbraio 1948 e che segnò la nascita della Regione Autonoma della Sardegna: un piano organico disposto dallo Stato col concorso della Regione per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola. Occorre dire che né in sede di discussione del testo dello Statuto né successivamente fu mai messa in dubbio la validità del termine “rinascita”, che pure presuppone inequivocabilmente che ci sia stato un tempo della storia sarda a cui rifarsi come a un tempo “positivo”, poi interrotto, senza però specificarne elementi costitutivi e durata. E’ senz’altro uno degli elementi più ricorrenti e nel contempo più indistinti della cosiddetta “questione sarda”.
Già da subito, nel maggio 1950, si svolse a Cagliari un “Congresso del popolo sardo” proprio sul problema posto dall’art. 13, organizzato dai partiti di sinistra, con apertura di Emilio Lussu e relazione di Renzo Laconi.
Nel dicembre 1951 fu nominata una Commissione di studio per la predisposizione del Piano, cui si aggiunse una Commissione economica nominata dal governo nazionale d’intesa con la giunta regionale. I lavori, però, andarono molto a rilento, almeno fino al 1954. Nella primavera del 1955 si arrivò alle clamorose dimissioni del democristiano Alfredo Corrias da presidente della giunta e anche da consigliere regionale per protesta nei confronti dei gravi ritardi dello Stato in relazione all’attuazione del già citato art. 13.
Nel corso degli anni continuarono i dibattiti, in varie sedi, istituzionali e non, come i Convegni organizzati nella primavera del 1959 nelle tre province sarde.
Nell’ottobre 1958 fu presentato al comitato dei Ministri per il Mezzogiorno il “Rapporto conclusivo sugli studi per il Piano di Rinascita”. Le indagini ed il programma di sviluppo esposti nel Rapporto della Commissione furono ritenuti troppo generali perché potessero valere direttamente come “Programma di intervento”. Al fine di enucleare tale programma dalle conclusioni della commissione economica, il presidente del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, con decreto 3 luglio 1959, istituì una commissione apposita, meglio nota come “Gruppo di Lavoro”, che, a sua volta, presentò un suo rapporto conclusivo il 19 novembre dello stesso anno. Il ruolo prioritario era affidato all’agricoltura, con un investimento previsto di 589 miliardi (su 861 complessivi per tutti i settori), soprattutto in opere di irrigazione e di trasformazione fondiaria. Si riconosceva la necessità di sostenere la piccola industria nei comparti agro – pastorali, mentre restavano in secondo piano le potenzialità dell’industria.
Sul tema dell’industrializzazione, a dire il vero, si era svolto già nel 1953 un convegno in cui si confrontarono due modelli di sviluppo: da un lato quello caro ai grandi interessi industriali sostenuti dai finanziamenti pubblici e dall’altro quello che privilegiava la valorizzazione delle risorse locali. In realtà, poi, rispetto alle indicazioni del citato Rapporto, ci fu un mutamento di rotta, che vide prevalere l’ipotesi di sostenere in primo piano l’industria, legata alle Partecipazioni statali.
Sulla base delle proposte fatte dal “Gruppo di lavoro” venne elaborato il disegno di legge che, attraverso l’iter parlamentare, si tradusse nella legge n. 588 del 29 maggio 1962, i cui obiettivi, come recita l’art. 1, erano i seguenti: “Per favorire la rinascita economica e sociale della Sardegna in attuazione dell’art. 13 dello Statuto… il Comitato dei ministri per il Mezzogiorno, con il concorso della Regione autonoma della Sardegna, dispone e assicura un piano organico straordinario ed aggiuntivo di interventi e assicura il coordinamento in relazione ad esso di tutti gli interventi previsti dalle leggi statali al fine di perseguire l’obiettivo dello sviluppo economico e del progresso sociale dell’Isola. Il piano viene formulato per zone territoriali omogenee, individuate in base alle strutture economiche prevalenti, alle possibilità di sviluppo e alle condizioni sociali. Finalità del piano deve essere il raggiungimento di determinati obiettivi di trasformazione e miglioramento delle strutture economiche e sociali delle zone omogenee tali da conseguire la massima occupazione stabile e più rapidi ed equilibrati incrementi del reddito”. La legge fu approvata con i voti dei socialisti e l’astensione dei comunisti.
Di rilievo la posizione assunta in merito ai tempi di approvazione del Piano dai cattolici de Il Democratico e dai socialisti autonomisti riuniti intorno al consigliere Sebastiano Dessanay (uscito dal PCI nel 1956) e al periodico Sardegna oggi: ad una rapida approvazione si preferiva il suo inserimento nell’ambito della programmazione nazionale, anche per evitarne una riduzione ad una dimensione esclusivamente economica. Antonio Giolitti, anch’egli socialista, più tardi ministro del Bilancio e della Programmazione, definì il provvedimento “il primo atto politico qualificante dell’attuale Governo sul terreno della programmazione economica”. L’attuazione del Piano, per la quale un ruolo centrale veniva attribuita alla Cassa del Mezzogiorno, poteva contare su uno stanziamento di 400 miliardi per un periodo di 12 anni: 150 all’agricoltura, 100 all’industria, 55 a infrastrutture, 36 al turismo, 30 alla formazione sociale e sanità, 11 ad altri settori minori, 10 di fondo di riserva.
Nel n°44 (1962) della prestigiosa rivista Ichnusa, diretta da Antonio Pigliaru l’economista Bastianino Brusco scriveva: “In Sardegna oggi si tenta di realizzare uno sviluppo economico forzatamente accelerato con gli strumenti della pianificazione: nascono così una serie di problemi economici giuridici politici che sino ad ora – almeno sino a meno di un anno or sono – non si erano mai proposti in Italia; sorge così – mentre la cultura e la politica italiana non hanno da offrire suggerimenti né esperienze – una serie di difficoltà, che deriva appunto dall’esigenza di armonizzare una pianificazione che vuole essere operativa con tutte le strutture giuridiche ed economiche preesistenti, dalla urgenza di tradurre in termini italiani prima e sardi poi quegli strumenti necessari alla pianificazione che sono stati finora elaborati per ambienti completamente differenti. Molte esigenze dell’isola sono comuni a tutto il Paese… Ma la composizione dell’organismo centrale di controllo e degli organismi per una effettiva pianificazione “dal basso”, le zone omogenee, i provvedimenti legislativi che garantiscano una reale aggiuntività degli stanziamenti, il coordinamento e la delimitazione delle competenze tra piano regionale e piani generali, i rapporti tra l’Ente Regione e l’organismo centrale di controllo, la misura degli stanziamenti, la scelta tra investimenti da parte del monopolio e da parte dell’industria pubblica impongono una serie di responsabilità alla classe politica isolana non solo di fronte alla Sardegna ma di fronte a tutto il Mezzogiorno d’Italia”.
Con la legge regionale n° 7 dell’11 luglio 1962 furono definiti i compiti di Consiglio, Giunta e Assessorati nella predisposizione e nell’attuazione del Piano. Nasceva il Centro Regionale di Programmazione. Un ruolo importante era affidato ai Comitati zonali, secondo un piano di zone territoriali omogenee (15 zone), e al Comitato di consultazione sindacale.
Nel 1963 la Conferenza Regionale del PSI espresse un giudizio assolutamente negativo sulla politica agraria seguita fino ad allora, per il suo indirizzo conservatore discriminatorio e disorganico. In particolare si denunciava l’assetto fondiario che vedeva oltre la metà della superficie agraria e forestale occupata dal pascolo permanente, con l’80% della stessa in mano ai privati, e la contemporanea presenza sia della grande proprietà terriera sia della polverizzazione in particelle possedute da piccoli o piccolissimi proprietari. A ciò si aggiungevano come fattori negativi il divario sempre più accentuato tra reddito agricolo e reddito industriale, la differenza tra i costi di produzione e il reddito del produttore, l’esasperante lentezza nel completamento delle opere di bonifica, l’azione dispersiva e clientelare degli Enti di Riforma, la sopravvivenza di contratti arcaici, l’assenza del credito a basso tasso di interesse. Tali problemi si riproporranno con forza in tutto il successivo dibattito sull’ammodernamento del settore agro-pastorale.
Il decennio 1965-1975 registra in Sardegna una serie di fenomeni di notevole portata sociale: grossa crisi dell’agricoltura, forte aumento dell’emigrazione, recrudescenza del banditismo, caratterizzato soprattutto dal reato del sequestro di persona, sviluppo dell’industrializzazione, compresa quella della Sardegna centrale. L’industria petrolchimica, in particolare, assorbe più del 75% degli investimenti industriali, creando poco meno del 30% di nuovi posti di lavoro. Tra il 1966 e il 1968 si verificano 33 sequestri di persona, 11 all’anno.
Ritornando all’attuazione del Piano di rinascita, ricordiamo che il piano quinquennale di attuazione fu approvato nel maggio 1966, dopo una discussione durata quasi tre mesi, ben prima del programma nazionale preparato dal governo di centro-sinistra (con il passaggio dal Piano Giolitti a quello Pieraccini) e approvato solo nel luglio 1967, due anni dopo l’inizio dell’iter parlamentare.
Nell’ambito del quinquennale vennero predisposti tre programmi esecutivi (dopo i primi due del 1963-64): il terzo (1965-66), il quarto (1967-70) e il quinto. Quest’ultimo venne elaborato mentre era già in corso di approvazione la legge n. 268 di rifinanziamento del Piano di Rinascita e venne quindi concepito come cerniera tra la vecchia e la nuova fase della programmazione.
Il 22 aprile 1966, con la crisi della giunta del democristiano Efisio Corrias, si formò la giunta presieduta dal suo collega di partito Paolo Dettori: nasce la “politica contestativa” (con o.d.g. voto approvato alla fine della discussione sul quinquennale).
Nel settembre 1966 alla Commissione regionale rinascita fu affidata un’indagine sulle zone interne dell’Isola, su cui, oltre la grave crisi del settore agro-pastorale, pesò drammaticamente un malessere sociale che esplose con la recrudescenza del fenomeno del banditismo e il vertiginoso aumento dei sequestri di persona.
Tre anni più tardi, la legge n° 811 del 31 ottobre 1969 stabilì la concessione alla Regione di 80 miliardi per un piano di intervento nelle zone interne a prevalente economia pastorale, ripartiti nell’arco di 10 anni. Ma il Consiglio Regionale impiegò due anni per rendere operativa tale legge.
Il malessere sempre più diffuso esplose più volte in manifestazioni di piazza negli anni caldi 1968-1969, soprattutto nei paesi del Nuorese. Nella primavera del 1969 ci fu il primo sciopero generale alla Sir di Porto Torres.
Il 27 ottobre 1969 con legge n° 755 viene istituita la Commissione d’inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna, presieduta dal sen. Giuseppe Medici, che terminerà i suoi lavori nell’autunno del 1972.
Nel 1970 comincia a sorgere il nucleo industriale di Ottana (ENI, ANIC, Montedison) per l’industrializzazione della Sardegna centrale, dove l’attività pastorale, in particolare, è vista come assolutamente insufficiente a risolvere il problema dell’occupazione.
Nel 1971 l’ENEL chiude le miniere di carbone. Nasce il polo alluminio a Portovesme, nel Sulcis-Iglesiente.
Nel febbraio dello stesso anno viene approvata la legge nazionale De Marzi-Cipolla sugli affitti dei terreni agricoli, che creerà ulteriori tensioni intorno al mondo delle campagne. Nel contempo con l’adozione della L. 25 la Regione si impegna a predisporre “un piano organico di interventi al fine di assicurare lo sviluppo economico e sociale delle zone interne dell’isola a prevalente economia pastorale”. La legge, però, fu poi estesa a tutto il territorio dell’isola. In agosto fu steso un documento del Centro regionale di programmazione intitolato “Sardegna. Opzioni per gli anni Settanta”, in cui emerge una revisione critica delle scelte industriali degli anni ’60 e la convinzione della necessità di rapportarsi di più alla pianificazione nazionale.
Il 30 gennaio 1974 si svolge a Cagliari una manifestazione di 50.000 persone con il segretario nazionale della CGIL Luciano Lama per il rifinanziamento del Piano di Rinascita, che viene approvato il successivo 24 giugno 1974 con la legge n°268, comprendente anche un finanziamento di 260 miliardi per un programma di “sostituzione della pastorizia nomade con quella stanziale attraverso la costituzione di aziende, singole e associate, di dimensioni tali da assicurare ai pastori gli stessi livelli di reddito delle altre categorie”. Si ipotizza, in relazione agli obiettivi di tale programma, la costituzione di un monte pascoli, che poi si rivelerà assai difficile da realizzare, per motivi diversi, come l’aumento dei prezzi dei terreni e l’acquisto di terreni da parte di singoli imprenditori.
L’1 agosto 1975 è approvata la legge n° 33 sui Compiti della Regione nella programmazione. I Comitati zonali vengono sostituiti dai Comprensori e poco più avanti dalle Comunità Montane. Ad ottobre viene firmato un documento politico comune da DC, PCI, PSI, PSDI, PRI, PLI, PSD’AZ da cui nascerà alla fine del 1976 l’intesa autonomistica (centro-sinistra con appoggio esterno del PCI cui fu attribuita la presidenza del Consiglio regionale). L’intesa entra in crisi nell’estate 1978.
Tra il 1976 e il 1978 fu in vigore un Piano triennale con cui si dovevano spendere 240 miliardi, seguito da un annuale per il 1979 (107 miliardi della 268). Nel 1976 viene approvata la L. 44 sulla riforma agro-pastorale, la paternità della quale deve essere a pieno titolo attribuita a Peppino Catte e sulla quale si può leggere più avanti l’acuta riflessione di Pietro Tandeddu. Si riporta in Appendice il testo integrale della L. 44, così come fu elaborata da Catte da Assessore all’Agricoltura.
Panorama politico
I primi 15 anni di governo della Regione Sardegna furono caratterizzati da un’egemonia pressoché assoluta della Democrazia Cristiana, appoggiata inizialmente (dal luglio 1949 all’agosto 1951), poi dal giugno 1954 al giugno 1955 e infine dal novembre 1958 al novembre 1963 dal Partito Sardo d’Azione. I consensi elettorali ricevuti dalla DC tra il 1949 e il 1961 (prime quattro tornate elettorali regionali) evidenziano chiaramente quanto il partito fosse radicato tra i vari strati della società sarda, sostenuto costantemente dalla Chiesa: si passò dal 34% del 1949 al 41% del 1953 e dal 41,7% del 1957 al 46,3% del 1961. Dopo 20 anni di autonomia, nel 1969, riceverà il 44,6% dei suffragi.
A metà degli anni ‘50 il monocolore democristiano ricevette anche il sostegno della destra monarchica, proprio mentre a Sassari si costituiva il gruppo di rinnovamento dei cosiddetti “giovani turchi” che vinsero il congresso provinciale del 1956 scalzando il vecchio notabilato e dando impulso ad una più efficace azione del partito sulle diverse componenti della società sarda, compresa quella degli intellettuali. I maggiori protagonisti erano Francesco Cossiga, Paolo Dettori, Pietrino Soddu e Nino Giagu De Martini: il primo avrebbe rappresentato la DC sassarese e sarda in Parlamento per diverse legislature, assumendo anche grossi incarichi di governo, prima di essere eletto Presidente della Repubblica; gli altri avrebbero ricoperto ruoli importanti nel governo regionale come assessori e come presidenti di giunta.
Dal collegamento dei giovani sassaresi con il leader cagliaritano della DC Efisio Corrias nasce un mutamento graduale di clima politico, in concomitanza con i segnali di svolta che si cominciano a manifestare a livello nazionale e che porteranno nei primi anni ‘60 all’incontro tra cattolici e socialisti e alla formazione del primo governo di centro-sinistra. A tale clima di superamento degli scontri più aspri erano, del resto, rivolti gli appelli che lo stesso Corrias ebbe modo di lanciare nel corso dei Convegni della primavera del 1959, prima citati.
A sinistra si registrarono altrettanti mutamenti, soprattutto a livello nazionale. In particolare occorre sottolineare il rilievo che ebbe, sui rapporti tra socialisti e comunisti, già uniti nel Fronte Popolare nel 1948 ed entrambi all’opposizione, il XX Congresso del PCUS nel 1956, con la denuncia fatta da Kruscëv delle repressioni staliniane, e più avanti l’invasione sovietica dell’Ungheria (novembre).
Poco tempo dopo, tra il 6 e il 10 febbraio 1957, si svolse il XXXII Congresso del PSI, in cui si scontrarono le due principali correnti, quella dell’autonomia del partito rispetto alle scelte del PCI a livello internazionale e nazionale (rappresentata al vertice da Pietro Nenni e Riccardo Lombardi) e della sinistra (di Emilio Lussu, Sandro Pertini e in parte di Lelio Basso).
Nenni aprì ai cattolici, mentre il democristiano Amintore Fanfani cominciò a parlare di competizione, più che di scontro, con i socialisti. La mozione autonomista prevalse anche al successivo congresso di Napoli (1959). Nel 1960, con il governo Fanfani, succeduto a quello di Tambroni (segnato da gravi violenze antioperaie, da morti e scioperi), si parla di “convergenze parallele”. Nel marzo di due anni dopo il comitato centrale socialista decide all’unanimità di appoggiare con la propria astensione il governo Fanfani, entrando a far parte della maggioranza di governo: nasce il centro-sinistra. A maggio, però, il sassarese Antonio Segni, uno dei fondatori della Democrazia Cristiana in Sardegna dopo la caduta del fascismo, viene eletto Presidente della Repubblica con i voti delle destre.
Nel dicembre 1963 nasce il governo Moro, in cui il PSI è rappresentato con quattro ministeri e Nenni ricopre la carica di vicepresidente del Consiglio. Ma il dissenso della sinistra socialista, sempre più forte, sfocia l’anno seguente nella scissione, da cui nasce il PSIUP.
In Sardegna, nel 1957, la vittoria democristiana alle elezioni regionali fu schiacciante soprattutto in confronto con la secca sconfitta dei comunisti (DC al 41,7% e PCI al 17,5%, con un calo di quasi 5 punti rispetto alla precedente tornata elettorale e sotto il 19,4% del 1949).
Nel PCI, già scosso dalla crisi successiva ai drammatici fatti d’Ungheria, si aprì un serrato confronto che portò a un mutamento di indirizzo, con un abbandono, almeno parziale, del tradizionale massimalismo e una maggiore apertura al confronto con le altre forze politiche, comprese quelle non di sinistra. Il recupero elettorale, però, fu lento, con il 19% nel 1961 e il 20,5% del 1965. Anche tra gli intellettuali si rafforzò il dibattito sul loro ruolo e su quello della cultura nella società sarda, di cui il momento più significativo fu un convegno organizzato nel marzo del 1958 a Nuoro dalla rivista Ichnusa. Il dibattito si sposterà sul terreno più propriamente politico (si pensi, oltre al periodico appena citato, a Rinascita sarda, Il Democratico, Il Bogino, Sardegna oggi) e concernerà ancora una volta il Piano di rinascita e il ruolo della Regione nella sua attuazione.
Nel corso della IV legislatura (1961-1965), nel clima di entusiasmo e di fiducia provocato dall’approvazione della legge n. 588, si arrivò all’allargamento delle alleanze, che vide la presenza in giunta regionale del Partito Socialista Democratico Italiano, accanto ai democristiani e ai sardisti, dal dicembre 1963 al giugno 1965.
Nel corso del decennio in cui Catte fu in Consiglio regionale (1965-1975) si succedettero al governo dell’Isola ben 11 giunte, a 9 delle quali partecipò il PSI, mentre 2 furono formate da un monocolore democristiano (dal gennaio del 1971 all’autunno del 1972). La crisi di governo più lunga durò tre mesi e mezzo, nel passaggio dal secondo monocolore democristiano all’elezione di una giunta tripartito DC-PSI-PSD’A, tra il 28 settembre 1972 e il 16 gennaio 1973.
Nello stesso periodo i socialisti passarono dai 5 consiglieri del 1965 (ne avevano 7 nel 1961, prima della scissione del PSIUP, che ne ebbe 1) ai 9 del 1974. Il PSI passò dal 6,9% all’11,7%; la DC dal 43,4% al 38,3%; il PCI dal 21% al 26,8%. Nelle prime quattro legislature i socialisti registrarono una costante crescita: dal 6% del 1949 all’8,8% del 1953 e dal 9,5% del 1957 al 9,6% del 1961.
La V legislatura si aprì con la formazione di un governo di centro-sinistra, composto da democristiani, socialisti, socialdemocratici e sardisti e presieduto ancora una volta (come le tre giunte precedenti degli ultimi sei anni e mezzo) da Efisio Corrias. La giunta entrò in crisi nel marzo 1966, in seguito soprattutto alle tensioni interne alla DC sarda e soprattutto all’iniziativa della componente nuorese di Forze Nuove, vincitrice del congresso provinciale, che portò alle dimissioni dell’assessore fanfaniano Del Rio.
Fu, quindi, formata una nuova giunta quadripartito guidata dal sassarese Paolo Dettori, che durò meno di un anno, per essere sostituita nel marzo 1967 dal bicolore DC-PSI retto dallo stesso Del Rio, in carica fino alla primavera del 1969, cioè alla fine della V legislatura.
Nell’agosto 1969 nasce la giunta DC-PSI-PSU, dopo le elezioni regionali della primavera. PSU sta per Partito Socialista Unitario, il nome preso dal PSDI dopo la scissione del 4 luglio 1969 dal PSI, con il quale c’era stata una temporanea unificazione dall’ottobre 1966, fallimentare sul piano dei consensi elettorali a livello nazionale, mentre in Sardegna guadagnarono un seggio, passando da 8 a 9 rappresentanti. Più consistente fu il risultato del partner di governo, la DC, la cui politica “contestativa”, al di là dell’aspro scontro interno tra le correnti di centro e quelle di sinistra, fu premiata con il 44,6% di voti, con l’affermazione maggiore nella provincia di Nuoro, dove otteneva il 53,2%, cioè 4 punti in più del 1965. Il PCI, a sua volta, registrò un leggero calo (dal 20,50 al 19,76, corrispondente all’aumento del PSIUP, che passò da 1 a 3 consiglieri), nonostante la crescita nella provincia di Nuoro, dove più forte si era manifestata la protesta nei confronti della politica regionale e nazionale.
La legislatura 1969-1974 fu caratterizzata da una crisi permanente: ben 7 giunte, di cui 2 monocolore democristiano, come già si è detto.
Il 27 gennaio 1971, dopo ben tre mesi di crisi, nacque il monocolore DC presieduto da Giagu De Martini, fino al 28 gennaio 1972.
Il clima politico sardo continuò ad essere molto greve, in consonanza con quello nazionale, che dopo l’elezione di Giovanni Leone alla presidenza della repubblica porta alla costituzione (a febbraio) di un governo di minoranza Andreotti e alle elezioni politiche anticipate (maggio 1972). A giugno lo stesso Andreotti costituisce un governo con i liberali, che rimpiazzano i socialisti, passati all’opposizione.
In Sardegna, nel frattempo, da marzo a settembre 1972 si ha un secondo monocolore DC presieduto da Salvatorangelo Spano.
Caduto questo alla fine di settembre 1972, dopo tre mesi e mezzo di crisi nasce il quadripartito Giagu De Martini (6 mesi), che anticipa il ritorno a luglio dei socialisti al governo, poi un’altra giunta con lo stesso presidente e la stessa formula (2 mesi e mezzo) e poi il tripartito (senza sardisti) fino al giugno 1974.
La settima legislatura (1974-1979) si aprì con un quadripartito retto dall’on. Giovanni Del Rio (agosto 1974-maggio 1976).
Peppino Catte, come si è detto, fu consigliere regionale del PSI dal 1965 al 1975, periodo durante il quale ricoprì per due volte anche l’incarico di Assessore dell’agricoltura e foreste, sotto la presidenza del democristiano Giovanni Del Rio: una prima volta dall’11 marzo 1967 al 14 giugno 1969 (circa metà della V legislatura) e una seconda volta dall’1 agosto 1974 (inizio VII legislatura) al 22 novembre 1975 (la Giunta durò fino all’agosto 1976).
L’on. Del Rio ci ha voluto cortesemente offrire una testimonianza della sua profonda stima per la figura e l’opera di Catte, in un colloquio in cui ha sommariamente rievocato le tappe più significative delle battaglie politiche di 30 anni di storia regionale: dall’ingresso in Consiglio, ancora ventottenne, nel 1953, con incarico assessoriale, quasi ininterrotto negli anni successivi (tranne con la prima giunta Brotzu, monocolore democristiano appoggiato dalla destra, dal 13 luglio 1955 al 15 giugno 1957, e con la giunta Dettori, bipartito DC-PSI, dal 22 aprile 1966 all’1 febbraio 1967), e con due presidenze, prima di approdare in Parlamento.
“Mi pare che Peppino Catte – ci ha raccontato – fosse presente ad Oristano, nel lontano 1944, ad un incontro organizzato da Renzo Laconi, Peppino Marras e altri antifascisti per il rientro di Velio Spano dalla Tunisia, in cui mi ritrovai anch’io, giovane studente liceale, anche se aderente alla Democrazia Cristiana. Ho avuto modo di incontrarlo nuovamente sui banchi del Consiglio regionale e di apprezzarne pienamente le sue doti umane e intellettuali. Catte, uomo molto riservato ma sempre gentile, era la personificazione della serietà, un uomo leale, un uomo onesto. Era sempre determinato nella difesa delle sue convinzioni e non intendeva mai cedere davanti ad alcun ostacolo né si adattava ad alcun compromesso con compagni o avversari, se non lo riteneva coerente con la sua visione morale delle questioni politiche. Ma era aperto al dialogo, non pretendeva di salire in cattedra. E non era un uomo di scontro né, tanto meno, di rissa. Sotto il profilo della preparazione culturale, attirava costante ammirazione per la lucidità e la ricchezza del suo pensiero. Aveva una grande conoscenza dei problemi che affrontava, senza alcuna approssimazione, e una tenacia speciale, una passione che lo ha retto fino all’ultimo: un esempio di combattente per tutti!”
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