GUIDO MELIS

LA VICENDA UMANA E POLITICA DI PEPPINO CATTE: UN QUADRO STORICO

Questo testo, che l’autore ci ha gentilmente concesso per il sito dedicato a Peppino Catte, è la relazione che il professor Guido Melis ha tenuto in occasione della presentazione del libro Peppino Catte, un uomo e il suo tempo a Nuoro il 5 maggio 2007 presso la Biblioteca “Sebastiano Satta”.

Riunione della Giunta regionale presieduta dll'On. Giovanni Del Rio

Questo libro, curato con la consueta passione da Giacomino Zirottu, propone tre questioni fondamentali, che a mia volta vorrei brevemente sottoporre alla vostra attenzione:

  • la rilevanza storiografica di un periodo storico, quello del lungo dopoguerra sardo;
  • l’esperienza collettiva di una generazione, quella che, avendo tra i 20 e i 30 anni alla caduta del fascismo, fornisce poi la leadership della politica sarda degli anni Cinquanta e Sessanta;
  • la vicenda infine della sinistra sarda nel dopoguerra, e in essa quella, particolarmente travagliata, del Partito socialista, per di più in un contesto molto peculiare quale è stato, tra anni Sessanta e Settanta, quello nuorese.

Entro questi tre ambiti si iscrive la vicenda umana e politica di Peppino Catte. Nato a Oliena nel 1916, antifascista dal 1942, militante comunista, poi socialista dopo i fatti d’Ungheria, elemento di spicco della nuova classe dirigente regionale che guidò, tra il finire degli anni Cinquanta e i due decenni successivi, le nuove sorti della Rinascita. Intellettuale, professore ed educatore amatissimo (come testimoniano anche i documenti raccolti in questo libro), cittadino esemplare di una Sardegna nuova che in quegli anni, appunto, veniva avanti con forza e con forza poneva il problema del suo rinnovamento radicale, della fuoriuscita da quello stato che molti avevano definito (talvolta anche con complice compiacimento) l’immobilismo plurisecolare della situazione sarda.

1. Il periodo storico. Gli anni di Catte, quelli “eroici” della militanza dell’immediato dopoguerra e quelli altrettanto impegnativi delle responsabilità istituzionali, attendono ancora in Sardegna il loro storico.

La storiografia sarda ha molto lavorato infatti sull’Ottocento, abbastanza sul primo Novecento, poco ancora sul fascismo, niente o quasi niente sul dopoguerra. Neppure il grande volume einaudiano degli Annali della Storia d’Italia curato da Luigi Berlinguer e Antonello Mattone, che io considero per molti versi un punto fermo negli studi sulla Sardegna contemporanea, ha potuto in merito offrire contributi esaustivi e sufficientemente eloquenti. Troppe sono ancora le lacune delle fonti (a cominciare dagli archivi, tra i quali vorrei segnalare lo stato desolante di quelli dei partiti e dei sindacati); troppi i nodi da affrontare serenamente, ora che molti di essi cominciano a “raffreddarsi”, per l’esaurirsi delle stagioni politiche ai quali erano e restano intimamente intrecciati.

Zirottu indica, nella sua ricostruzione, le tappe fondamentali del percorso storico che fa da sfondo alla vicenda politica di Peppino Catte. La liberazione dal fascismo, avvenuta in Sardegna senza la lotta partigiana; la ricostruzione rapidissima dei partiti politici; le grandi lotte di popolo del dopoguerra, per la terra e per le miniere, guidate dalla sinistra socialista e comunista; ma anche la svolta togliattiana e l’apertura dei comunisti ai sardisti; l’istituzione della Regione autonoma e la sua prima fase di vita, caratterizzata dalla burocratica ripetizione dei modelli organizzativi e funzionali dello Stato centralista.

E poi ancora il dibattito, intensissimo, tra gli intellettuali, culminato in quella che è stata definita l’esaltante stagione delle riviste: “Ichnusa” di Antonio Pigliaru, “Rinascita sarda” prima serie, animata specialmente da Renzo Laconi, da Umberto Cardia, da Girolamo Sotgiu; senza trascurare le pagine culturali dei due quotidiani sardi maggiori, specie “La Nuova Sardegna”, dove apparve ben presto – come collaboratore fisso – il nome di Gonario Pinna, una personalità che avrebbe contato molto nella evoluzione politica e anche nell’esperienza umana di Peppino Catte.

Fu questo l’humus nel quale, a partire dagli ultimi anni Cinquanta, doveva inserirsi il dibattito sul Piano di Rinascita. Il tema della questione sarda, che costituiva un’eredità del periodo prefascista (a Nuoro erano ancora vivi gli echi della breve ma significativa presenza di Attilio Deffenu), si arricchiva adesso di nuove prospettive: veniva in evidenza tutta la tematica dello sviluppo delle aree depresse (se ne era molto discusso in Italia sin dagli anni Cinquanta, anche in relazione agli studi della Svimez e alla prima esperienza della Cassa per il Mezzogiorno); emergeva il tema del ruolo dell’industria (se piccola o grande, se monopolistica o concorrenziale, se pubblica o privata) e dell’impatto dell’investimento industriale sull’agricoltura; soprattutto si riproponeva in termini nuovi il problema della riforma agraria, e della complicata convivenza (anche questo era un nodo plurisecolare, in Sardegna e specialmente in Barbagia) tra agricoltura produttiva e pastorizia nomade.

Gli anni della Rinascita sono stati studiati da Francesco Soddu, che ad essi ha dedicato saggi importanti ed anche una fortunata antologia di testi: emerge dalla sua analisi l’enorme vitalità della cultura di quegli anni, e non solo nelle sue componenti di sinistra. Accanto a “Icnhnusa” (ora nella sua seconda serie), citerò “Il Democratico” dei giovani democristiani Paolo Dettori e Pietro Soddu; “Autonomie cronache”, pure ispirato alla stessa corrente democristiana; “Il Bogino”; “Rinascita sarda” nella nuova serie disegnata in una grafica accattivante da Alberto Rodriguez; soprattutto “Sardegna oggi” di Sebastiano Dessanay. Più tardi si sarebbero aggiunti “Il Giornale” di Antonello Satta e uno stimolante “Tribuna della Sardegna” nel quale si impegnò generosamente Michelangelo Pira.

2. Sul crinale che divise gli anni Cinquanta dai Sessanta un vasto processo di rinnovamento investì il complesso della società sarda.

In politica venne l’ora dei trentenni e dei quarantenni (la politica regionale era stata sino ad allora dominata da esponenti della generazione immediatamente precedente, vissuta e maturata per gran parte sotto la dittatura). Accadde nella Democrazia cristiana, dove i cosiddetti “giovani turchi” capeggiati da Francesco Cossiga diedero l’assalto al cielo del potere regionale conquistando la Regione; accadde nel Partito comunista, nel quale la breve segreteria regionale di Enrico Berlinguer (dieci mesi nel 1957-58) segnò per molti versi anche un trapasso di generazioni, per esempio determinando il tramonto della stella di Velio Spano; e accadde nel Partito socialista.

In questo Partito però accadde molto di più: l’“indimenticabile 1956” rappresentò – come è noto – per i socialisti italiani uno spartiacque decisivo. Catte, che aveva preso a far politica a Nuoro avendo tra i suoi maestri quello straordinario militante che fu l’indimenticabile Antonio Dore, e che poi aveva fortemente sentito la lezione politica, oltreché morale, di Sebastiano Dessanay, fu tra quelli che compirono in Sardegna il passo decisivo, stabilendo una linea di netta demarcazione, politica ma ancor prima etica, tra la loro militanza e la violenza dei carri armati. C’era, tra i più convinti assertori del distacco dal Pci, anche Gonario Pinna, che anzi proprio a quella scelta di principio avrebbe dovuto sacrificare di lì a poco la sua carriera di parlamentare. C’era Dessanay, naturalmente. E c’era, a Roma, nel gruppo dirigente nazionale, quello che era stato sino ad allora uno dei pupilli più cari a Palmiro Togliatti, il giovanissimo Antonio Giolitti.

Le vicende successive, che portarono anche in Sardegna alla scissione del Psiup, cui aderì Emilio Lussu, sono abbastanza note. Ebbero, anche qui a Nuoro, strascichi penosi, compresa (indirettamente) una celebre contesa giudiziaria che vide Gonario Pinna querelare il periodico scandalistico sassarese “Sassari sera” ed averne alla fine piena soddisfazione.

Che Catte dovesse essere tra i dirigenti del rinnovato Partito socialista, rinato dopo la scissione del 1957 su più coerenti basi riformiste, era in qualche misura scontato. Scorrendo gli scritti di Catte, i suoi mai occasionali discorsi in Consiglio regionale (dove sedette per dieci anni, dal 1965 sino alla morte), si leggono in filigrana le linee della sua formazione: sull’originario nucleo marxista (un marxismo a forte impronta gramsciana, cui non era estranea la tradizione umanistica italiana mediata da Croce), Catte aveva evidentemente elaborato i dati di una cultura diversa, nella quale si intuivano la capacità di padroneggiare la letteratura, e non solo quella italiana, sul sottosviluppo economico e sulle riforme di struttura e poi (elemento che ne caratterizzava originalmente l’apporto) la conoscenza profonda del mondo agrario, specificamente di quello sardo. In tempi di imperante e ingenuo industrialismo, Catte fu, con equilibrio e moderazione, un convinto sostenitore della perdurante centralità della questione agro-pastorale sarda. E qui, oltre alle sue radici barbaricine, profondamente sentite e tradotte in una moderna comprensione dei problemi delle campagne, contava certamente anche l’influsso del suocero Gonario Pinna (specie nell’analisi che troviamo in Catte relativamente al nesso pastorizia-criminalità, non come questione della miseria generatrice di devianza, secondo una visuale paleo-marxista del problema, bensì alla luce dell’acuta analisi che proprio Gonario Pinna andava conducendo, e proprio in quegli anni, sulla precarietà e l’isolamento come dati esistenziali della vita del pastore).

Fu del resto Sebastiano Dessanay (per dire un altro dei “padri sprituali” di Catte) a coniare in quegli anni, la celebre immagine dell’intellettuale barbaricino con un piede calzato nello scarpone di campagna e l’altro nel mocassino di città: come a dire che a quell’élite di giovani intellettuali barbaricini toccava espressamente, in tempi di intense trasformazioni economiche e sociali, un ruolo ineliminabile di mediazione, di tramite necessario tra campagna e città, tra agricoltura e industria, tra cultura della tradizione e cultura della modernità.

Catte infatti non fu affatto un politico delle zone interne, nel senso che non si limitò a riflettere nella sua azione le problematiche del Nuorese, e neppure quelle generali del comparto agro-pastorale. Fu propriamente, e nel senso appena evocato, un politico della mediazione, tra le istanze della modernizzazione legate all’industria e alla crescente Sardegna urbana e quelle della campagna, fautore come nessun altro forse di un modello di sviluppo equilibrato ed armonico, nel quale l’investimento industriale non dovesse col suo solo apparire determinare vulnerazioni e sofferenze al contesto tradizionale.

3. Il Partito Socialista

Il Partito socialista di Peppino Catte merita, anche sotto questo aspetto, una rivisitazione critica, che come accade nei restauri d’arte ne rimetta in luce le fattezze e ne valorizzi i colori originari. Voglio accennare qui a una mia esperienza personale molto, molto giovanile. Nel 1967 ero in seconda liceo, il che vuol dire che avevo 17 anni. Col mio amico Gianni Francioni (oggi professore di filosofia a Pavia e in questi giorni celebrato a Oristano come raffinato filologo gramsciano), fummo invitati dall’avvocato Pinna ad intervenire a Nuoro a una riunione del “Circolo Avanti!”, nella quale si sarebbe discusso di giovani e banditismo. Non ricordo se fosse presente anche Peppino Catte. Certo c’era l’avvocato Gonario (anzi il dottor Gonario come lo chiamava affettuosamente, alla barbaricina, mio padre che ne era stato allievo in avvocatura), e potete immaginare con quale enfasi e con quali generose e sproporzionate parole ci presentò agli iscritti del Circolo. Tenni allora il mio primo, emozionatissimo, intervento in pubblico, leggendo a stento tre foglietti che avevo scritto e riscritto con incontentabile spirito autocritico durante la notte precedente. Non credo che quei foglietti siano rimasti alla storia.

Ma se parlo di quel lontano episodio è perché l’ambiente del Circolo mi colpì moltissimo. Abituato com’ero alle riunioni sassaresi, studentesche e borghesi, trovai a Nuoro un’assemblea attenta di uomini in gambali, giovani e anziani insieme, capaci di domande penetranti e di interventi informatissimi. Ero uno studente di liceo molto sprovveduto, ma ebbi allora la netta l’impressione di cosa fossero i partiti politici. Scuole di formazione e crescita intellettuale, luoghi di integrazione tra militanti di estrazione e biografie diverse, terreno di coltura della democrazia di base.

Il Partito socialista degli anni Sessanta, quello stesso che agli inizi del decennio aveva completato la sua lunga marcia verso le istituzioni entrando nei governi di centro-sinistra, era – e lo sarebbe rimasto alquanto a lungo – appunto questo. Era un partito che ebbe forse altri limiti, altre fatali lacune. Ma non ebbe la lacuna di distaccarsi dalle masse (come allora si usava dire), di perdere le sue radici popolari. Fu, e rimase per molti anni ancora, almeno sino alla svolta craxiana (o per meglio dire, sino alla degenerazione dell’esperienza craxiana ai tempi del Caf) un pezzo importante della sinistra italiana e del sindacato, coi piedi bene affondati nella sua tradizione.

Trovo molto di questa concezione del Partito socialista nella biografia di Peppino Catte, compresa la sua fondamentale esperienza come assessore all’Agricoltura.

Traggo, da una rapida lettura del saggio di Zirottu, alcuni motivi ricorrenti, punti fermi della sua azione politica nel decennio 1965-75:

  1. l’autonomia che non può ridursi a “ordinaria amministrazione”, a quel “municipio in grande” che paventava negli stessi anni Antonio Pigliaru;
  2. il problema impellente della formazione di una “nuova” classe dirigente sarda, capace di prendere in mano la politica di Piano e di condurla in porto;
  3. la necessità, in conseguenza, di una riforma dei partiti, che non sempre – scriveva già nell’agosto 1965, e la battuta suona oggi preveggente– appaiono strumenti idonei ad assolvere i nuovi compiti assegnati loro dalla Rinascita.

L’azione di governo, in una concezione essenzialmente riformista, si traduceva per Catte in una politica delle cose, lontanissima dall’ideologia fine a se stessa, e al tempo stesso tesa a prestare costantemente orecchio ai problemi quotidiani, concreti, reali, principalmente di quel popolo del lavoro che costituiva per lui il referente del suo stesso impegno politico.

Tutto ciò non gli impediva tuttavia di vedere acutamente i segnali innovativi, anche quelli più lontani dall’universo agro-pastorale. Mi ha colpito molto la pagina del 1969 nella quale affrontava il tema dei nuovi movimenti giovanili di massa, studenteschi ed operai, cogliendo – diceva – il “desiderio sempre più diffuso dei cittadini di prendere parte alla vita democratica ed alle decisioni, agli indirizzi che regolano la vita del Paese”.

Rientrava in questa sua sensibilità per i temi della democrazia anche la coraggiosa posizione assunta nel marzo 1973 quando il Consiglio regionale discusse sulle posizioni espresse dal procuratore generale della Repubblica di Cagliari Francesco Coco (poi assassinato a Genova dalle Brigate rosse) in merito alla libertà di critica sull’operato della magistratura. Pagina nitidissima, nella quale alla sensibilità per il principio liberale della separazione dei poteri, si univa l’energica e convinta difesa dei diritti della politica, e della sua propria, insopprimibile libertà di esprimersi specie nelle sedi istituzionali a ciò deputate.

E poi, naturalmente, c’è il denso capitolo della riforma agro-pastorale, il tema al quale si dedicò in particolare nel biennio 1974-75 e che costuituì in certo modo il suo più importante lascito politico e culturale. L’impegno su questo fronte però non veniva dal nulla, radicandosi in un interesse di lunga data e in una serie importante di esperienze precedenti. Nel libro Pietro Tandeddu spiega esemplarmente le motivazioni, i fini, i contenuti e l’articolazione di quella che a buon diritto possiamo chiamare come la legge Catte: un vasto disegno di riforma che dava organica risposta a una serie di impellenti questioni, ma lo faceva mettendo a frutto almeno due decenni di elaborazione riformatrice sul tema e valorizzando gli apporti conoscitivi di tutta una cultura. Quando si farà (e si dovrà fare prima o poi) la storia della legislazione regionale del dopoguerra, quella legge, poi realizzata postuma anche per l’iniziativa di Giovanni Nonne, non potrà non rappresentarne uno dei capitoli più significativi.

4. Il 1975: un anno difficile per la Sardegna

Il 14 giugno, a soli 48 anni, quasi coetaneo di Catte, scomparve quello che era un altro grande protagonista della politica regionale, anche lui uomo soprattutto di agricoltura, il democristiano Paolo Dettori.

Quasi in quelle stesse ore si tennero le elezioni amministrative, facendo registrare ovunque l’avanzata del Pci e il netto calo della Dc. Anche i socialisti, sebbene in misura più contenuta, migliorarono il dato delle regionali del 1974.

In luglio, un caldissimo luglio sardo, Catte presentò in Consiglio i provvedimenti in favore della zootecnia e per l’incremento della produzione della carne, ma una votazione a sorpresa bocciò il provvedimento portando la Giunta Del Rio sull’orlo della crisi. Ne sarebbe seguita, dopo la pausa estiva, una lunga e laboriosa verifica.

Due sequestri di persona e un’innumerevole serie di fatti di sangue funestarono in quegli stessi mesi le campagne sarde. In febbraio i segretari di Cgil-Cisl-Uil, con una dichiarazione congiunta a Radio Cagliari, avevano intanto denunciato con toni allarmatissimi lo stato intollerabile della disoccupazione e rilanciato la vertenza Sardegna.

Molte delle speranze legate al varo del Piano di Rinascita e alla industrializzazione apparivano, nella stagione della prima grande crisi dell’industria petrolifera, letteralmente giunte al declino. Si apriva, anche se ancora nessuno di noi lo sapeva con esattezza, la lunga, interminabile fase della recessione sarda.

Non è improprio, credo, immaginare che tutti quegli eventi e lo stress che ne derivava, abbiano inciso sulla salute di Peppino Catte.

La sua scomparsa, il 22 novembre 1975, avvenuta per così dire “sul campo”, ci ha privato della sua cultura e della sua lucida intelligenza quando più ne avremmo avuto bisogno.


 

Il prof. Guido Melis

Guido Melis è professore ordinario di Storia delle Istituzioni politiche e di Storia dell’Amministrazione pubblica presso l’Università di Roma “La Sapienza”, Dipartimento di scienze documentarie, linguistico-filologiche, geografiche.  

Nel quinquennio 2008-2013 è stato in congedo perché eletto deputato in quella legislatura per il Partito Democratico. Alla Camera ha fatto parte della Commissione Giustizia.

Ha scritto oltre 350 tra saggi, articoli, volumi, ecc. in prevalenza in materia di storia dell’amministrazione, della burocrazia, della cultura del diritto amministrativo e dello Stato in genere. Nell’anno 1997, con il volume Storia dell’amministrazione italiana. 1861-1993 (Il Mulino, Bologna), ha vinto il Premio Acqui-saggistica storica e successivamente il Premio Sissco. Nel 2004 gli è stata conferita, su proposta dell’amministrazione archivistica, la medaglia d’argento del Presidente della Repubblica per i benemeriti della cultura e dell’arte.

È membro del Comitato direttivo della Scuola Superiore della Magistratura.

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