Le battaglie di Peppino Catte nel Consiglio Regionale (1965-1975)

Le pagine di questo lungo capitolo vogliono essere un tentativo di ricostruzione critica degli interventi che Peppino Catte svolse nel Consiglio Regionale nel corso di dieci anni che rappresentarono una stagione particolarmente importante, sia sul piano politico sia su quello economico-sociale, per l’Isola. Una prima parte contiene gli interventi di natura più squisitamente politica, una seconda quelli relativi al dibattito sulle scelte economiche, cui segue l’intervento sui problemi dell’ordine pubblico e della sicurezza nelle campagne, mentre una quarta parte contiene anch’essa alcune stimolanti riflessioni politiche su fatti e fenomeni che superano spesso i confini dell’Isola. Riteniamo che dalla lettura di queste pagine possa emergere un ritratto chiaro della personalità umana e intellettuale di Catte e nel contempo un quadro ampio, se pur non certamente esaustivo, dei più rilevanti problemi politico-sociali della Sardegna tra gli anni ’60 e ’70.
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Discorso pubblico insieme ad altri componenti della Giunta regionale
Discorso pubblico insieme ad altri componenti della Giunta regionale
Interventi sul quadro politico regionale

Nella seduta consiliare del 3 agosto 1965, dedicata alla discussione sulle dichiarazioni programmatiche del presidente della Giunta Efisio Corrias (DC), Peppino Catte, nel suo primo intervento in consiglio regionale, difende la nascita della giunta DC-PSI-PSDI (rammaricandosi dell’assenza dei sardisti, che entreranno nella coalizione di governo qualche giorno più tardi) e la formula del centro-sinistra, in polemica con i comunisti che la definivano “un cadavere politico” e con gli psiuppini: “mi pare – dice – che con questa affermazione i comunisti finiscano con lo scambiare la realtà con i propri desideri”.

Ma parla anche della mancanza di “una reale, diversa alternativa, un’altra formula che possa sostituirla… per limiti che vanno ricercati sia nel mondo cattolico sia in quello comunista”, con riferimento evidente ai reciproci antichi e ricorrenti veti ideologici posti dalle due grandi formazioni politiche della DC e del PCI, che contrassegnano la specificità del caso Italia nel panorama politico internazionale.
Il centro-sinistra rappresenta, quindi, “il naturale sbocco della vita politica sarda, non un’improvvisa ed artificiosa creazione”. Ed aggiunge subito dopo, con lo sguardo rivolto all’evoluzione subita dalla politica nazionale: “La nostra Isola non poteva rimanere fuori dal nuovo corso della vita politica italiana, il quale, tra l’altro, si caratterizza con la programmazione e cioè lo sforzo e la volontà politica di affrontare globalmente, per la prima volta nella storia d’Italia, il problema del Mezzogiorno e delle Isole, inteso non più come problema a sé stante, ma come momento particolare del più complesso problema dello sviluppo armonico dell’economia e della società italiana. Verso questa prospettiva che si apriva nel mutato quadro della vita politica italiana, negli ultimi tempi hanno cominciato a muoversi anche le forze cattoliche e si sono mossi i socialisti”.
“Noi – afferma Catte a nome dei socialisti – riteniamo che la maggioranza e la minoranza dovranno misurarsi soprattutto nell’opporre soluzione a soluzione, per una politica costruttiva, sia nel Consiglio sia nelle Commissioni, sia alla base dove i vari ceti, le varie categorie saranno orientate per essere informate e consultate in assemblee, in convegni, nei Comitati di zona, e dove occorrerà indicare i processi obiettivi, la giusta direzione in cui occorrerà muoversi”.
Intervenendo di nuovo il 24 agosto prima della votazione sulla giunta quadripartita (il 4 agosto il Consiglio aveva bocciato la nascita della giunta tripartita e nelle settimane successive a DC- PSI-PSDI si aggiunse, come si è detto, il PSD’A), soffermandosi sui problemi più squisitamente politici e soprattutto sull’atteggiamento ostile dei comunisti nei confronti dei socialisti (per la loro partecipazione al governo), definisce la loro polemica “aspra e ingenerosa” e sostiene che “il motivo dell’unità e del partito unico potrà diventare tema di un comune dibattito solo se cesseranno le aggressioni e se la polemica rimarrà entro limiti che consentano la prosecuzione del dibattito stesso… Non intendiamo evidentemente sfuggire ad una discussione sul tema dell’unità, che rimane anche per noi una prospettiva storica, anche perché sappiamo che il dibattito su questo tema ci porterà a discutere non solo e non tanto sui limiti del centro-sinistra, ma anche e soprattutto, per dirla con Amendola, sul fallimento dell’esperienza comunista o di quella socialdemocratica sulla via del socialismo… Andare a sinistra, cioè andare verso il progresso sociale, significa spostare a sinistra le cose, costruendo giorno per giorno una società migliore; non significa spostare a sinistra solo le parole, perché questo sarebbe facile massimalismo”.
A tale proposito Catte esterna la preoccupazione che le divisioni si riflettano nelle amministrazioni e negli organismi di massa dove socialisti e comunisti collaborano.
Di particolare rilievo per la loro amara preveggenza le conclusioni dell’intervento: “Eppure permangono tanti motivi di pessimismo che, quanto meno, invitano a moderare le speranze. Si avverte il pericolo che l’immobilismo, il quietismo della vita e della società sarda finiscano con l’aver ragione ancora una volta della volontà di rinnovamento, con l’imporre il ritmo dell’ordinaria amministrazione all’azione della Giunta e alla politica del Piano, che la visione globale finisca col frantumarsi in visioni e soluzioni particolaristiche. Si fanno ancora sentire i limiti della nostra società, limiti per i quali essa nel passato, dopo l’Unità, non ha avuto una classe economica e politica dirigente con una sua visione unitaria dei problemi sardi. Perciò la Sardegna è entrata in condizione subalterna a far parte della comunità nazionale.
L’autonomia è nata come reazione a tale condizione subalterna e ha posto quindi il problema della formazione della nuova classe dirigente sarda. Non c’è dubbio che la politica di Piano e la visione organica ed unitaria che le è propria rappresentano un contributo di importanza decisiva per superare i limiti che si opponevano all’affermazione di una nuova classe dirigente, pienamente consapevole dei suoi compiti. Perciò il Piano esalta l’autonomia.
I motivi di pessimismo nascono dal fatto che tutti sentiamo che tali limiti continuano a pesare sulla vita della nostra Isola. Li ritroviamo in diversi campi, li ritroviamo, per esempio, negli strumenti di cui la Regione dispone per attuare una sua politica di rinnovamento… Li sentiamo nella vita stessa dei partiti che non appaiono sempre strumenti idonei ad assolvere i nuovi compiti della rinascita.
Per tutto questo non ci stanchiamo di ripetere che fattore decisivo per la rinascita rimane una volontà politica che deve non soltanto tradursi in un impegno della Giunta o dei partiti di maggioranza, ma coinvolgere tutti i partiti e dilatarsi fino a diventare impegno civile e culturale di tutta la classe dirigente sarda, non solo dei quadri politici, ma in particolare anche degli intellettuali sardi chiamati ad una più chiara e fattiva presa di coscienza dei problemi della nostra Isola. Se vi sarà questa volontà di rinnovamento da parte di tutti, dei politici, degli intellettuali e delle masse organizzate, l’antico immobilismo sardo potrà essere vinto. Ma per questo occorre disincagliare tale politica dai piccoli calcoli, dalle manovre, dai particolarismi e dalle interessate strumentalizzazioni. Occorre che la critica non diventi disfattismo, avvalorando la tendenza al qualunquismo culturale così largamente diffuso tra noi. Questo è, in fondo, quello che ci chiede il popolo sardo, il quale non comprende le complicazioni e le manovre politiche, ma vuole soltanto la soluzione dei suoi gravi ed urgenti problemi”.
Il voto unanime del Consiglio regionale sul piano e lo sviluppo del Mezzogiorno, espresso il 10 maggio 1966 e riconfermato il successivo 4 luglio in seduta congiunta con i parlamentari sardi, non fu portato in Parlamento, ma discusso in sede di Commissione bilancio della Camera, dove la richiesta di un “piano particolare” per la Sardegna non fu accolta per motivi procedurali (secondo il Ministro del Bilancio Pieraccini), in quanto ciò avrebbe offerto ad altre regioni la possibilità di inserirsi con problemi particolari nell’inquadramento generale del piano economico. Fu, invece, accolto un emendamento che obbligava il Governo a rispettare gli obiettivi del Piano di rinascita della Sardegna.
L’ordine del giorno-voto chiedeva, fra l’altro, che fossero garantite l’aggiuntività e la straordinarietà dei fondi stanziati dallo Stato, rispettando l’obbligo del coordinamento organico di tutta la spesa pubblica e realizzando l’intesa con la Regione sulle direttive degli interventi e i programmi di spesa.
Il documento formulava, quindi, una serie di richieste specifiche al Parlamento e al Governo nazionale, a favore del Mezzogiorno e della Sardegna: dall’industrializzazione alle tariffe elettriche differenziate, dall’incremento del credito all’attuazione dei progetti delle Partecipazioni Statali, dalla perequazione dei livelli salariali tra Nord e Sud al finanziamento dei piani particolari di opere pubbliche.
Intervenendo sull’argomento nel corso della seduta del 13 ottobre 1966 Peppino Catte afferma che “la questione di fondo rimane la rivendicazione autonomistica contenuta nel Piano di rinascita e nel voto del Consiglio”. E prosegue: “Da parte nostra intendiamo affrontare il presente dibattito senza indulgere né al pessimismo dettato da un rivendicazionismo astrattamente demagogico né all’ottimismo suggerito da giustificazioni di qualsiasi genere… Diciamo molto chiaramente che intendiamo continuare la nostra azione rivendicativa, ma che questa azione del Consiglio e di tutte le forze rappresentate nel Consiglio è concepita da noi socialisti come un’azione intesa a migliorare e modificare in favore della nostra Isola la politica di Piano, non a respingerla in blocco e tanto meno a presentare il Piano nazionale agli occhi del popolo sardo come il grande accusato, tanto meno ancora a porre sotto accusa il Governo, la formula politica e le forze politiche che le hanno dato il voto.
Noi socialisti non soffriamo di complessi di inferiorità, abbiamo anzi la consapevolezza di avere dato un contributo decisivo all’avvio di una politica di piano e di aver così consentito sulla base di questa politica nuove conquiste alla rivendicazione autonomistica. Il problema, per noi, rimane quello di sfruttare tutte le possibilità che oggi ci sono offerte dalla programmazione nazionale che sta per divenire realtà”.
La questione dell’ordine del giorno-voto si ripropose a metà luglio del 1967 (presidente Del Rio) il cui messaggio ai sardi non poté essere diffuso dai microfoni di Radio Cagliari per decisione del direttore generale della Rai-TV Ettore Bernabei.
Il 6 agosto 1969, in occasione della nascita di una nuova giunta Del Rio, Catte interviene per dire, in premessa, che si sta vivendo un momento politico “difficile e gravido di incognite… nel quale ogni partito deve rivelare la sua fondamentale ispirazione. Il quadro politico nazionale appare notevolmente turbato dopo gli ultimi avvenimenti e questo fatto non può non influire in qualche modo anche sui comportamenti delle forze politiche isolane, che si muovono nella prospettiva di una ristrutturazione della sinistra italiana, assegnando, in prospettiva più o meno lontana, ai comunisti un ruolo diverso da quello che essi hanno assolto in questi ultimi anni”.
Il consigliere socialista, però, chiarisce subito dopo che “è bene precisare subito che l’idea di stabilire in modo nuovo i rapporti con i comunisti al presente, e di configurare un nuovo ruolo per essi nel futuro, non può oggi, in alcun modo, assumere il significato di una dichiarazione di insufficienza del centro – sinistra” e difende la formula di governo, che però non va vista come “uno stato di necessità”, in quanto esso è nato da una grande battaglia politica per il rinnovamento del Paese. Non si possono realizzare operazioni sottobanco, ma si deve delimitare la maggioranza “come impegno doveroso alla chiarezza ed alla correttezza dei rapporti tra i partiti della maggioranza in sede di Parlamento”. “Nello stesso tempo – continua Catte – con altrettanta chiarezza noi rifiutiamo gli steccati, le crociate ideologiche, perché crediamo nella forza del centro-sinistra e crediamo che tale forza debba manifestarsi soprattutto nel dialogo, nel confronto con tutte le altre forze, compresi i comunisti”.
Ed ancora: “Ripresentare la lotta politica nei termini di crociata, in cui tale lotta è stata affrontata e condotta alcuni lustri or sono, significa chiudere gli occhi di fronte a due grosse realtà che, a nostro giudizio, caratterizzano la situazione attuale. La prima è data dal vasto movimento di contestazione che sembra percorrere tutta la società italiana, le più disparate categorie, ed in primo luogo i giovani. Questi movimenti hanno modificato profondamente il quadro della politica del nostro Paese. Io credo che, al di là delle varie motivazioni che volta per volta i singoli movimenti assumono, sia lecito affermare che essi esprimono sempre un desiderio sempre più diffuso dei cittadini di prendere parte alla vita democratica ed alle decisioni, agli indirizzi che regolano la vita del Paese. L’altra realtà, della quale dobbiamo tener conto, è il travaglio del Partito Comunista, sia in rapporto ai legami internazionali (Cecoslovacchia – Dichiarazioni di Mosca) sia in rapporto alle vicende della vita politica italiana. Sono realtà che non si possono ignorare e che non possiamo affrontare nei termini della lotta politica degli anni ’48-’50.
A queste due grandi realtà che si intrecciano continuamente e che offrono ogni giorno nuove possibilità di confronto a tutti i livelli, e non soltanto a livello di Parlamento, non possiamo rispondere rispolverando il vecchio anticomunismo, mentre tutto nasconde un complesso di inferiorità che il centro-sinistra non deve avere”.
Infine ricorda che la politica contestativa della Regione Sardegna ha conseguito già importanti risultati quali l’impegno delle Partecipazioni Statali e la creazione del nucleo industriale nella zona centrale dell’Isola, ma essa si svilupperà anche in altre direzioni. Ma “il successo di questa politica appare ad ogni modo legato a quell’altra battaglia contestativa che si è sviluppata ovunque, nei vari centri della Sardegna ed in particolare nelle zone interne dell’Isola. A questa contestazione, al di là delle motivazioni particolari e delle strumentalizzazioni, noi diamo un significato che va ben oltre quello di una protesta occasionale contro questa o quell’amministrazione. Il movimento delle popolazioni sarde ha un significato ben più ampio, ha un significato, oserei dire, storico nella vita della nostra Isola; quello di una presa di coscienza del nostro popolo, di una esigenza di partecipazione alla vita pubblica, alle decisioni che interessano tutti i cittadini. Questo movimento, che spesso ha respinto le strumentalizzazioni dei partiti e la loro direzione, che ha creato nuovi punti di incontro tra uomini appartenenti a diverse forze politiche ed a diversi ceti sociali, che ha dato vita a nuovi centri di mobilitazione pubblica nei quali i giovani studenti, figli di operai, di contadini, hanno assolto un ruolo molto importante, questo movimento, dicevo, ci ha offerto esperienze che devono farci meditare.
In quei centri di mobilitazione della pubblica opinione e di lotte unitarie, al di là del particolarismo dei partiti, abbiamo sentito quanto frusti e superati siano gli schemi di certe lotte ideologiche o dello spirito di crociata. Ma abbiamo anche capito che la politica di centro-sinistra non può essere soltanto l’ordinaria amministrazione di un Governo che si giustifica soltanto come stato di necessità. E’ una grande battaglia politica che deve impegnare tutte le forze nella ricerca di più vaste unità e di una vasta mobilitazione. Una battaglia che richiede, prima di tutto, la presenza politica nei luoghi dove il movimento si sviluppa e che diventerà sempre di più il luogo dell’incontro, del dialogo e della sfida, di cui ho parlato”.
Come è stato ricordato nelle pagine precedenti, il 27 gennaio 1971, dopo ben tre mesi di crisi, nacque il monocolore DC presieduto da Giagu De Martini, che durò fino al 28 gennaio 1972. Nella seduta consiliare del 21 luglio 1971, dedicata alla proposta di legge e disegno di legge «Norme per l’attuazione di un piano di interventi nelle zone interne a prevalente economia pastorale, di cui alla legge 30 ottobre 1969, n. 811», Catte coglie ancora una volta l’occasione per una riflessione di ordine squisitamente politico, affermando che “le garanzie sul piano non le può dare la legge (che è una legge sul piano e non un piano): è la situazione politica, sono gli equilibri politici che esprimono una Giunta che possono dare tali garanzie. Diciamo subito che questa situazione politica e la Giunta che ne è l’espressione a noi non danno questa garanzia né per il piano né per le zone interne, né per lo sviluppo democratico dell’Isola. Noi poniamo prima di tutto un problema di chiarezza politica”.
Il consigliere socialista, insomma, sottolinea il rilievo del quadro politico rispetto alle scelte programmatiche da compiere ed afferma, ancora una volta, con lo sguardo rivolto in avanti, che, rispetto al monocolore democristiano che governa la regione, «un nuovo corso deve iniziare nella vita politica sarda, che sappia interpretare le lotte e le aspirazioni del popolo sardo e utilizzare questo potenziale di lotte per il rinnovamento dell’Isola e per le giuste rivendicazioni della Sardegna, proprio nel momento in cui in campo nazionale si manifestano tendenze involutive all’interno della Democrazia Cristiana. Noi chiediamo ai democristiani sardi di riprendere il loro discorso di rinnovamento democratico e di riaffermazione della validità dell’ideale autonomistico. Ci sono in Sardegna le condizioni per un governo più avanzato e per sbarrare la strada alle forze del passato. Ma è necessario scegliere, uscire dall’incertezza e dalla confusione: l’incertezza rischia ogni giorno di più di impantanare la vita politica isolana. Quello che ieri poteva essere una giustificabile mossa tattica sta diventando un lungo e pericoloso equivoco. Per quanto ci riguarda, noi lotteremo perché si esca da questo equivoco”.
Esattamente tre mesi più tardi, nella seduta consiliare del 21 ottobre 1971, Catte parla della crisi del centro-sinistra la cui origine sta “negli equilibri più arretrati che si sono creati all’interno dello schieramento del centro-sinistra, equilibri che purtroppo si sono venuti spostando sempre più verso le posizioni e i comportamenti propri del moderatismo centrista. I socialisti tendono, invece, verso equilibri più avanzati… Ci sforziamo di essere gli interlocutori validi delle forze più vive del mondo cattolico e del mondo comunista, per aiutarne l’evoluzione, perché viviamo in una realtà che è in movimento, che è in profonda trasformazione, perché il nostro compito è di assecondare questi elementi di trasformazione, perché questo è il senso profondo degli equilibri più avanzati, e per questo rifiutiamo schemi che oggi appaiono inadeguati alla interpretazione di questa realtà, che è nel mondo cattolico così come è nel mondo comunista.
Noi ci sforzeremo in tutti i modi di creare le condizioni anche in Sardegna, perché la vita politica sarda acquisti una diversa articolazione, perché finalmente la vita politica sarda possa esprimere tutta la sua capacità di contestazione nei confronti del Governo, ma anche tutta la capacità che finora non ha avuto modo di superare quegli ostacoli che si sono opposti a portare avanti una politica di trasformazione. Per questo noi terremo sempre vivi questi collegamenti con le forze della nostra sinistra, del partito comunista, per portare avanti un dialogo, tenendo conto di tutto quello che di nuovo è emerso nel partito comunista, che non può essere una realtà mummificata, una realtà immobile, e tutti i documenti rispondono come sia viva, anche nel partito comunista, questa esigenza di non farsi sorpassare dagli avvenimenti, dalla realtà che muta. Lo stesso impegno noi porremo con le forze cattoliche, anche in Sardegna, soprattutto in questo momento in cui le forze più nuove della Democrazia Cristiana, più vive, conducono una battaglia per impedire che vi sia uno sbandamento, uno spostamento pauroso verso la destra nella Democrazia Cristiana”.
In realtà, però, l’appello rimane inascoltato. Da marzo a settembre 1972 si ha un secondo monocolore DC presieduto da Salvatorangelo Spano. In occasione del suo insediamento, il 23 marzo 1972, Catte svolge un’analisi della situazione politica regionale, che si presenta soprattutto come una severa, durissima requisitoria nei confronti della Democrazia Cristiana, che dichiara responsabile di un sistema di potere assimilabile ad un regime.
La crisi appena conclusa viene definita dal consigliere socialista “uno dei momenti più oscuri e più difficili nella vita delle istituzioni autonomistiche della Sardegna”, ma precisa subito che in questo giudizio negativo né lui né il suo partito intendono coinvolgere il Presidente designato onorevole Soddu, al quale danno anzi atto del comportamento corretto e leale tenuto nel corso delle trattative e inoltre della comprensione e apertura politica con le quali ha condotto le trattative stesse.
Piuttosto, “il trasformismo, la lotta tra le fazioni, senza esclusione di colpi, la difficoltà a stabilire collegamenti tra i diversi gruppi politici sulla base di una chiara piattaforma politica” sono tutti elementi di una situazione creatasi già da un po’ di tempo, con la formazione della giunta monocolore Giagu.
Essa venne giustificata allora come un ponte verso una soluzione più avanzata, ma in realtà, secondo Catte, “anche in Sardegna la D.C. ha voluto concentrare tutto il potere nelle sue mani, evidentemente perché conta sull’esercizio di questo per un recupero elettorale”. I socialisti – afferma l’oratore – hanno dimostrato la piena disponibilità ad una trattativa che conducesse alla formazione di una Giunta stabile, purché, naturalmente, venissero salvaguardate alcune esigenze di fondo. Ma la trattativa non ha approdato ad una risultato positivo, per i veti posti da alcuni gruppi democristiani.
“Ci era sembrato e avevamo sperato che fosse possibile comporre in Sardegna un diverso quadro politico, per cui nella nostra Isola si potessero affrontare le elezioni in un clima diverso da quello che si sta annunciando in campo nazionale, in un clima di chiara e netta impostazione antifascista. Speravamo inoltre che alle correnti della sinistra democristiana fosse data l’opportunità di stabilire un nuovo, ma chiaro e corretto rapporto dialettico con tutta la sinistra isolana. Il monocolore Spano ha dimostrato che queste speranze avevano scarso fondamento, che la situazione sarda tende sempre più ad uniformarsi a quella nazionale”.
Il giudizio negativo non vuole essere, comunque, una chiusura senza speranza: “Il nostro voto contrario ad ogni modo non significa che rinunciamo ad ogni tentativo di operare una svolta, e di stabilire, a questo fine, le convergenze necessarie con tutte le forze interessate ad operare una tale svolta. Crediamo che vi siano anche all’interno della D.C. sarda forze disposte a condurre una lotta per raggiungere un simile obiettivo. Speriamo che nel grande dibattito o scontro politico, le elezioni dimostrino, con chiare prese di posizione, una simile volontà. Per noi quello della svolta da operare in campo regionale sarà uno dei temi su cui maggiormente insisteremo nel corso della campagna elettorale. Non è possibile che dopo due mesi di crisi e di paralisi della vita della Regione, il popolo sardo non sia chiamato a dibattere e a giudicare sulle responsabilità di tale crisi e sugli sbocchi che essa dovrà avere nel prossimo futuro.
Ci preoccupa seriamente il discredito crescente delle istituzioni democratiche e autonomistiche e ci batteremo perché da queste elezioni esca una indicazione precisa, una forte spinta che ci aiuti a sciogliere certi nodi che ostacolano il naturale sviluppo della vita della nostra autonomia e impediscono che essa abbia una base popolare più larga. Soprattutto non possiamo permettere che il discredito alle istituzioni autonomistiche cresca per la crisi e le lotte interne della Democrazia Cristiana o che venga strumentalizzato dalle forze della destra eversiva. I mali della democrazia, che in tutti i casi non sono paragonabili ai disastri e alle rovine materiali e morali del fascismo, si curano con un maggiore impegno democratico, con una ulteriore avanzata della vita e delle istituzioni della democrazia.
In Sardegna come altrove non deve essere lasciato spazio ad una speculazione di tipo fascista. Di fronte all’offensiva della destra, alla tracotanza fascista, il monocolore sardo si presenta indubbiamente fiacco, quasi complice, come del resto lo è il monocolore nazionale. E vanno sottolineate le responsabilità della DC, perché (ed ecco il passaggio forse più forte) “dopo quasi trent’anni di dominio democristiano quasi incontrastato perché senza alternative, fondato su quello che è stato detto il bipartitismo imperfetto, la democrazia italiana ha finito con l’assumere il volto di un vero e proprio regime, ove Stato e partito dominante si compenetrano in una specie di monopolio del potere, ove per conseguenza la tessera o la raccomandazione democristiana, come in altri tempi la tessera fascista, spesso diventano condizioni per il posto di lavoro, per la carriera, per riuscire a stabilire certi rapporti con uffici ed enti dello Stato.
In questa compenetrazione fra Stato e partito riesce ormai difficile scorgere i lineamenti dello Stato di diritto o il carattere “neutro” di organi e uffici dello Stato. Tutto diventa posizione di potere politico, gli enti, le banche, gli istituti di beneficenza, la scuola, soprattutto quella professionale, e tutti gli uffici dello Stato. Tutto ciò naturalmente mortifica la coscienza democratica, provoca disagio e reazione anche perché ostacola la libera formazione ed evoluzione dell’opinione pubblica, perché ricatti e discriminazioni vincolano le coscienze e determinano quell’immobilismo che caratterizza da anni la vita politica italiana. Il disagio cresce perché il regime tende a rafforzarsi; c’è di più: i tempi nuovi, le conquiste delle masse popolari portano alla creazione di nuovi istituti, di nuove forme di assistenza, d nuovi servizi sociali. Ma anche questi diventano nuove occasioni, nuovi strumenti di potere che finiscono col rafforzare il potere del partito dominante”.
E gli esempi in Sardegna non mancano, dice Catte: “Consideriamo infatti che cosa sono diventati in Sardegna, quale funzione hanno avuto gli istituti e gli Enti come l’ETFAS, i nuclei di assistenza, la formazione professionale, o le attività assistenziali: quasi sempre si sono trasformati in fabbriche di voti. E’ questo che fa crescere sempre più il disagio e la protesta, soprattutto fra i giovani, i quali non accettano questa situazione, vogliono uscire da una situazione che ad essi appare mortificante e senza sbocchi”.
E più avanti, di fronte alla rinascita della destra eversiva Catte esprime la convinzione che si possa e si debba rispondere solo con una politica di riforme, ma chiarisce: “Non con un sinistrismo verbale, col massimalismo, con gli scavalcamenti a sinistra, che creano soltanto confusione, che spaventano e nulla realizzano, ma con una politica di riforme seria, di ammodernamento del nostro Paese”.
Per quanto riguarda il quadro politico, i socialisti – sostiene Catte – sono contrari alla interpretazione, cosiddetta prussiana, della delimitazione di maggioranza, intesa come rottura con la sinistra comunista, rottura che dal vertice si estende alla base, agli enti locali e ai sindacati. Sono, anzi, per un nuovo corso della vita politica isolana che coinvolga tutte le forze autonomistiche, ciascuna con un proprio ruolo ed una propria funzione e ispirazione, nell’attuazione di un disegno politico di rinnovamento interno e di rivendicazione autonomistica. Perciò per i socialisti “il problema non è solo quello di trovare una maggioranza o una formula per una Giunta, bensì quello di avviare una diversa dialettica tra le forze autonomistiche, quello di cercare nel Consiglio e fuori del Consiglio le convergenze necessarie per creare un vasto fronte di lotta”.
“La Democrazia Cristiana, insiste Catte, se vuol rimanere fedele alle sue tradizioni di partito popolare antifascista che guarda a sinistra – come diceva De Gasperi – deve cercare collegamenti e convergenze a sinistra. Lo confermano tutte le battaglie di carattere autonomistico, lo confermano soprattutto le battaglie che sono state combattute per il rinnovamento dell’isola, e per il potenziamento dell’autonomia. L’autonomia, che ha subito in quest’ultimo anno le più gravi mortificazioni; proprio per lo stato di confusione politica che col monocolore ha diviso le forze autonomistiche. Ma la battaglia deve essere ripresa, per ottenere che della autonomia siano ampliati i confini, perché la Sardegna non si ritrovi indietro alle regioni a statuto ordinario. Perché l’autonomia sia potenziata attraverso il trasferimento di nuove competenze e il rinnovamento delle vecchie strutture. Soprattutto col rifinanziamento del piano di rinascita, in una misura che non potrà essere inferiore, ma anzi certamente superiore a quella già indicata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta. È difficile, infatti, fare programmi in una prospettiva futura se non sappiamo su quali mezzi possiamo contare. Anche il problema delle scelte e delle priorità rischia di diventare astratto se non si tiene presente l’entità dei fondi che potranno essere destinati agli investimenti”.
Nel corso del 1973, dopo due anni di giunte monocolori democristiane, furono formate ben tre giunte: la prima dal 16 gennaio al 19 luglio e la seconda dal 20 settembre al 4 dicembre, presiedute da Giagu De Martini; la terza, presieduta da Del Rio, fu votata il 22 dicembre e restò in carica fino alle elezioni del giugno 1974.
Peppino Catte, nella seduta consiliare del 22 dicembre, intervenendo sulle dichiarazioni programmatiche del Presidente della Giunta, pone ancora una volta l’accento sugli aspetti politici del governo regionale quando afferma, nelle prime battute del suo intervento: “Credo che dovremo faticare non poco per recuperare il tempo perduto, ma soprattutto per recuperare il credito che l’istituto autonomistico ha perduto nell’opinione del popolo sardo, il quale ha dovuto assistere, per settimane e mesi, ad uno spettacolo, non certo edificante, di confusione, di lotte e di divisioni interne, e ha visto e sofferto la paralisi dell’esecutivo regionale in un momento nel quale forse come mai il mondo politico sardo avrebbe dovuto presentare, anche fuori dalla Sardegna, uno spettacolo di unità, coesione politica, stabilità e chiarezza di cui la Sardegna aveva bisogno per portare avanti la lotta autonomistica e per avviare seriamente alcuni processi di sviluppo, resi possibili da nuovi strumenti di programmazione (quali ad esempio il Piano delle zone interne)…
Il mondo politico sardo si presenta particolarmente disgregato e confuso, condannato alla paralisi politica proprio nel momento delle grandi decisioni che riguardano la Sardegna, nel momento in cui la battaglia per il disegno di legge n. 509 dovrebbe costituire per tutti un impegno prioritario. Ma questa battaglia presuppone un minimo di unità, di coesione politica, tanto più che, se è vero che il tempo che ci separa dalle elezioni regionali è breve, è altrettanto vero che nei prossimi mesi ci attendono alcune scadenze importanti. Dovremo predisporre il V programma esecutivo; devono essere definiti i programmi di intervento delle Partecipazioni statali, e in particolare dell’EGAM; nuove competenze saranno attribuite alla Regione… Ma in particolare dobbiamo ricordare che incombe sulla nostra Isola, come del resto sull’economia italiana (e non soltanto italiana), la minaccia di una crisi economica legata alla congiuntura, alla crisi energetica e alle misure dell’austerità, crisi che potrà colpirci tanto più gravemente quanto più ci troverà impreparati ed imprevidenti.”.
Di particolare rilievo la seguente riflessione: “C’è anche un discorso più a monte che dobbiamo affrontare, per cercare di risalire alle cause di fondo del disagio che investe la vita politica sarda, che si esprime nella crisi dei partiti e diventa ogni giorno di più crisi delle istituzioni autonomistiche. È un discorso che ci deve impegnare tutti in una rimeditazione delle esperienze autonomistiche maturate in questi anni, per coglierne i limiti che si sono manifestati in tutti i campi. Prima di tutto, nella visione dei problemi e delle realtà della nostra Isola, del modello di sviluppo che si è affermato soprattutto ad opera ed iniziativa di forze esterne alla vita della nostra Isola, contro gli interessi del popolo sardo e non certo secondo la volontà, almeno dichiarata, dei vari governi regionali (anche se non si può parlare di una chiara volontà né di una chiara linea politica che abbia guidato il nostro esecutivo per quanto si riferisce ai problemi dello sviluppo economico dell’Isola).
Inoltre, anche per quanto riguarda i problemi di sviluppo industriale che si sono avuti in alcune zone, con tutti i fenomeni connessi e le influenze che si sono avute sul mondo agricolo circostante, noi non abbiamo avuto sufficiente attenzione, non ne abbiamo seguito gli sviluppi… Possiamo anche ricordare la scarsa considerazione per i problemi di uno sviluppo equilibrato della nostra economia, così come, d’altra parte, si è avuta nel complesso poca attenzione nei confronti degli strumenti operativi della Regione e delle sue strutture burocratiche, che si rivelano ogni giorno più inefficienti man mano che cresce la complessità e la difficoltà dei problemi che abbiamo di fronte”.
Catte sottolinea, infine, in particolare che i socialisti hanno rifiutato la formula del bicolore, privilegiando la ricomposizione del quadro organico di centro-sinistra.
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Incontro con i giornalisti insieme all'On. Contu
Incontro con i giornalisti insieme all’On. Contu
Interventi su scelte economiche e problematiche sociali
Nella settima legislatura, come si è già detto e come si vedrà ancora più avanti, Catte, da assessore all’agricoltura, porrà tutte le sue energie intellettuali e fisiche al servizio della battaglia per la riforma del settore agro-pastorale, che aveva visto il suo impegno già dai primi mesi del primo mandato come consigliere regionale, nel 1965. Potrebbe, però, aver attirato la sua attenzione verso i molti problemi del mondo delle campagne, oltre naturalmente la sua origine e la sua crescita nelle zone interne dell’Isola, la pur breve esperienza di collaboratore di Velio Spano, che nel 1946, dopo essere stato eletto all’Assemblea Costituente nelle file del Partito Comunista, di cui era anche uno dei massimi dirigenti, fu per qualche mese sottosegretario all’Agricoltura.
In questa sede intendiamo offrire ai cortesi lettori una ricostruzione, sia pur non completamente esaustiva (soprattutto sul piano delle implicanze con il più ampio panorama economico sardo e nazionale) degli interventi pronunciati da Catte sui temi dell’economia sarda e di quelli legislativi dallo stesso attuati a favore del vasto settore agro-pastorale in dieci anni di lavoro nel Consiglio e nella Giunta della Regione Sardegna.
Nella seduta consiliare del 3 agosto 1965, con riferimento all’adozione del Piano Quinquennale di programmazione, per l’attuazione del Piano di Rinascita, il neoeletto consigliere socialista, attento a collocare l’azione di governo regionale nel più ampio quadro della politica nazionale di quella stagione, afferma che “l’incontro dei socialisti con i cattolici in Sardegna avviene proprio su questa posizione più avanzata che la DC ha raggiunto con la politica di piano… Esso dovrà iniziare tutto un processo di sviluppo ed avrà notevoli riflessi in campo sociale… Solo l’intervento pubblico e una politica di piano possono salvare i ceti legati all’arretratezza dalla rovina e dalla disoccupazione, riqualificandoli tecnicamente e socialmente, attraverso il rinnovamento delle strutture della nostra economia… Il Piano ci deve dare la garanzia che nel futuro non assisteremo impotenti di fronte a fenomeni così gravi come la disoccupazione e l’esodo dei lavoratori agricoli. E ci sarà questa garanzia nella misura in cui sapremo incidere sulle vecchie strutture della nostra economia, agendo in maniera che quei ceti di lavoratori, che finora sono stati le vittime dello sviluppo economico, diventino domani i protagonisti del Piano.
Tutto questo vuol dire che l’attuazione del Piano ci porrà non solo di fronte a scelte di carattere tecnico ed economico, ma anche di fronte ad alcune scelte di fondo di carattere politico e sociale che richiedono una precisa volontà politica”.
Catte non nasconde le perplessità che il Piano ha suscitato e suscita, soprattutto in merito alla disoccupazione che non cesserà e alla politica dei cosiddetti poli di sviluppo “per la cui esasperazione si sono delineati in Sardegna forti squilibri territoriali”. Ma ci sono, secondo il consigliere nuorese, aspetti positivi che non vanno sottaciuti, come la partecipazione democratica attraverso i comitati di zona e la volontà di affrontare veri e propri problemi di struttura.
Soffermandosi in particolare sul problema dell’agricoltura, al quale nel corso degli anni dedicherà costante attenzione, Catte afferma che si deve evitare un uso errato dei fondi disponibili e l’esodo ulteriore dei contadini dalle zone agricole povere, e ciò può avvenire tramite un intervento pubblico che “assuma forme massive e talvolta anche coattive per agevolare il processo verso una più razionale organizzazione aziendale”.
“Oggi vi sono – prosegue Catte, puntando il dito su due annosi gravi nodi dello sviluppo economico della Sardegna- da un lato, la proprietà assenteista e, dall’altro, una estrema polverizzazione che condanna una miriade di piccoli proprietari all’impotenza. Noi possiamo correggere le previsioni che il Piano fa sulla occupazione e sull’esodo dei contadini, solo se sapremo indicare le vie per incidere sulle vecchie strutture delle zone ad agricoltura asciutta e pascoliva.
Non si tratta tanto di aumentare i fondi destinati a incentivare le opere di trasformazione fondiaria, come è stato proposto, quanto di intervenire organicamente con vari strumenti: il credito, la selezione anche dei contributi, gli enti di sviluppo, i nuclei di assistenza e, soprattutto, rafforzando le organizzazioni cooperativistiche di produzione e di mercato per raggiungere un diverso assetto delle aziende pastorali e agro-pastorali. Non sarà possibile ottenere ciò se non attraverso l’applicazione delle leggi sulla piccola proprietà, sul riordino fondiario e sulle intese”.
Il riordino interessa sia le zone irrigue sia quelle ad agricoltura asciutta e richiederà, quindi, la mobilitazione dei contadini, che dovranno essere riqualificati per essere elevati al rango di imprenditori isolati o associati.
Anche per quanto riguarda l’industria, Catte ritiene che per evitare la pressione dei gruppi monopolistici occorra “una politica della Giunta regionale alle cui direttive dovranno ispirarsi i vari organi che dovranno pronunciarsi sul tipo di industrie da finanziare e sulla loro organizzazione”.
Conclude affermando che “nei prossimi anni la Giunta è chiamata non a realizzare una politica di ordinaria amministrazione, ma a promuovere lo sviluppo programmatico dell’economia sarda allo scopo di modificare la condizione di alcuni gruppi sociali. Con i miliardi della rinascita è possibile fare molte cose in questo senso, ma non è possibile fare tutto. Non è possibile, ad esempio, promettere tutto a tutti; dovranno, necessariamente, essere fatte delle scelte, stabilite delle priorità. Queste dovranno essere stabilite senza perdere di vista l’obiettivo di fondo, che è lo sviluppo e la trasformazione della nostra economia. Non sarebbe possibile risolvere seriamente il problema della disoccupazione e degli squilibri territoriali, se la maggioranza e l’opposizione perdessero di vista questo obiettivo per condurre una politica di interventi occasionali e frammentari”.
Poche settimane dopo, nella seduta del 24 agosto 1965, Catte interviene ancora sui problemi legati all’attuazione del Piano di rinascita, affermando con grande realismo, senza sfuggire alla complessità dei problemi (secondo un’etica della lealtà intellettuale che fu caratteristica peculiare della sua personalità umana e politica) che “le difficoltà più grandi, soprattutto per quanto riguarda l’agricoltura, derivano dal pericolo che leggi, opere pubbliche ed incentivi possano dimostrarsi incapaci di scuotere l’antico immobilismo, perché, in ultima analisi, si affidano alla iniziativa di un imprenditore che non c’è o opera in condizioni estremamente difficili. Non c’è nelle zone irrigue e non c’è nelle zone asciutte come molto spesso non c’è nel campo industriale”.
E più avanti: “Certo sarebbe un grave errore pensare di poter risolvere nell’ambito dell’agricoltura, ed in particolare dell’agricoltura asciutta, i problemi dell’occupazione e degli squilibri territoriali. I fatti dimostrano che dappertutto l’occupazione in agricoltura tende a diminuire con lo sviluppo, e non va dimenticato il fatto che, se è vero che nelle zone asciutte e pascolive si hanno prospettive solo o soprattutto per l’allevamento, in Sardegna, tradizionalmente, ai tre quarti del territorio destinato al pascolo corrisponde un quarto della popolazione dedito alla pastorizia. Riteniamo perciò che l’industrializzazione costituisca lo strumento decisivo (non solo per risolvere il problema dell’occupazione, ma anche per promuovere lo sviluppo economico generale, quindi anche dell’agricoltura) perché mutando la composizione della popolazione dà vita ad un mercato interno, perché crea una maggiore disponibilità di capitali e, infine, perché suscita attività complementari con quella dell’agricoltura”.
Ma precisa subito dopo, con parole che hanno l’amarissimo sapore dell’attualità, a 40 anni di distanza, che “non si può dire che l’esperienza del passato conforti del tutto questa nostra opinione… Quali sono, a nostro giudizio, gli aspetti negativi della industrializzazione? Il fatto che potenti gruppi monopolistici sono riusciti a condizionare lo sviluppo industriale e ad assicurarsi gran parte dei contributi della Regione; l’elevatissimo costo di ogni posto di lavoro…; il sorgere di molte industrie scarsamente legate alle risorse ed al mercato locale (anche da questo derivano le difficoltà che poi si traducono in continui ricatti alla Regione per ottenere altri finanziamenti); la scarsa presenza in Sardegna delle aziende statali, dell’I.R.I…; infine l’eccessiva concentrazione in alcune zone delle iniziative industriali, sorte spesso non solo per l’azione di fattori obiettivi, e cioè per l’attrazione dei poli di sviluppo, ma spesso per la forte attrazione, invero più forte che selettiva, dei contributi a fondo perduto e per decisioni in sede bancaria”.
Nella seduta consiliare del 15 febbraio 1966, dedicata al “Primo rapporto sull’attuazione del Piano di rinascita al 31 dicembre 1964”, Catte interviene come relatore di maggioranza sull’attuazione, appunto, dei primi due piani esecutivi del Piano di Rinascita (1963-1964), che definisce “primo esperimento di pianificazione regionale che sia stato tentato in Italia”.
Il rapporto arriva con un anno di ritardo e questo fatto è un’inadempienza, ma “la nostra preoccupazione più viva deve essere quella di trarre dall’esperienza passata utili insegnamenti per affrontare l’esame delle prospettive e degli strumenti indicati nel quinquennale”.
I risultati sono notevolmente al di sotto delle previsioni e delle speranze suscitate qualche anno prima (al giugno del 1965 dei 76 miliardi che erano stati programmati, solo 39 erano stati deliberati e soltanto 8 erano stati erogati). “Se, tuttavia, vogliamo renderci pienamente conto delle ragioni dell’insuccesso, non possiamo limitarci ad una generica accusa rivolta alle Giunte regionali, ma dobbiamo passare ad esaminare uno per uno i diversi aspetti del Piano ed in particolare dobbiamo rivolgere la nostra attenzione ai vari presupposti sui quali si fondavano le previsioni del programmatore. Tali presupposti noi possiamo indicare in questo modo: primo, i fondi del Piano; secondo, l’aggiuntività; terzo, il coordinamento di tutti gli interventi dello Stato, della Regione, del Piano, degli enti; quarto, la determinazione realistica degli obiettivi in rapporto alle risorse della nostra Isola; quinto, gli strumenti legislativi ed operativi per costituire tali obiettivi; sesto, la situazione politica ed economica generale”.
Alcuni di tali presupposti sono venuti meno. L’aggiuntività, ad esempio, non è stata rispettata da parte dello Stato, come pure il coordinamento: “Troppo spesso i fondi del Piano sono stati sostitutivi invece che aggiuntivi”. Nel campo delle opere pubbliche c’è stata una diminuzione di investimenti, mentre è aumentata paurosamente la disoccupazione nel settore dell’edilizia. Sono venuti meno anche gli investimenti delle partecipazioni statali.
“Mentre si aggrava ogni giorno di più la situazione della nostra Isola, soprattutto per ciò che riguarda la disoccupazione e l’emigrazione, noi abbiamo il diritto ed il dovere di esigere che il Governo mantenga tutti gli impegni assunti con la legge 588. Non vi sono oggi problemi più gravi e più urgenti di quelli sardi, che possano giustificare altre priorità, rispetto ai bisogni della nostra Isola.… Nessuno è autorizzato a pensare che la formula di centro-sinistra possa servire a coprire con colpevole complicità le inadempienze del Governo centrale… Mentre respingiamo la facile demagogia antigovernativa, vogliamo dire chiaro che siamo decisi a portare fino in fondo la giusta rivendicazione del popolo sardo”.
Ma, aggiunge, puntando il dito anche sulle responsabilità politiche e amministrative regionali, “nessuno oserebbe affermare che i ritardi di cui si parla siano dovuti soltanto alle inadempienze governative. Se i miliardi che sono stati stanziati vengono spesi con tanto ritardo, la spiegazione di ciò va ricercata non solo a Roma, ma anche in Sardegna”.
Nel contempo “non facciamo del giustificazionismo se richiamiamo l’attenzione sulla gravità e complessità dei problemi che si ponevano e si pongono ai programmatori, i quali devono operare in una realtà, come quella sarda, che non sempre si lascia inquadrare entro le linee di uno sviluppo economico programmato. Sono gravi e complessi, ad esempio, i problemi della nostra agricoltura, nella quale le possibilità di sviluppo sono legate non solo ad un mutamento di indirizzi produttivi, ma anche ad una trasformazione profonda delle strutture economiche e dei rapporti sociali.
Ma è una realtà, quella delle campagne sarde, per trasformare la quale l’azione del Piano incontrerà indubbiamente infiniti ostacoli, e non tutti di natura economica. Nella maggior parte dei terreni suscettibili di trasformazione, il fenomeno della frammentazione, della polverizzazione esercita un’influenza estremamente negativa, che condanna il piccolo agricoltore all’impotenza ed alla miseria e la nostra agricoltura all’arretratezza… Gran parte dei contributi regionali ai privati è andata dispersa in una miriade di piccole iniziative, con il risultato di mantenere in piedi una agricoltura arretrata, senza riuscire gran che a modificarla. Alcuni risultati positivi sono innegabili, inferiori, però, in ogni caso, a quelli che l’entità degli investimenti autorizzava a sperare” (dei 35 miliardi stanziati per le bonifiche, ad esempio, solo 14 risultavano appaltati al 30 giugno 1965).
Catte, però, con lucido equilibrio critico, che lo fa parlare sempre fuori dagli schematismi e dalle posizioni preconcette, dopo aver denunciato i diversi errori del passato, anche recente, subito dopo sottolinea qualche risultato positivo come l’aumento della produzione lorda vendibile, anche se ciò è avvenuto a scapito dell’occupazione.
A proposito, poi, di interdipendenza nello sviluppo delle diverse zone, il consigliere socialista afferma: “Quando rivendichiamo una più attenta considerazione degli interessi delle zone interne meno fortunate, siamo mossi non da spirito campanilistico, ma dalla consapevolezza che l’attività cui è affidato in gran parte l’avvenire di queste zone, l’allevamento, non è un’intrapresa poco sana da assistere per mantenerla in vita. Possiamo anzi affermare che oggi in Sardegna l’allevamento costituisce forse l’attività più sana e più redditizia e lo sarà sempre di più, se sarà assistito come è doveroso sia nella fase della produzione e del miglioramento dei pascoli, che in quella della commercializzazione del prodotto”.
Infine osserva che per l’industria si potrebbero ripetere molte delle cose dette per l’agricoltura, anche se è necessario rilevare una maggiore rapidità nella spendita dei fondi. Piuttosto, “il rapporto in discussione avrebbe dovuto cercare di lumeggiare meglio alcune scelte che si riferiscono soprattutto alla industria cartacea e petrolchimica, nella quale il rapporto investimenti – occupazione appare tanto sfavorevole”.
Un limite del rapporto sta, a parere del relatore, nella mancata indicazione dei rimedi e delle misure da adottare per superare i ritardi e le difficoltà incontrate nell’attuazione del Piano. “Occorre superare tutte le remore di carattere burocratico che si oppongono alle iniziative degli operatori”. Questo è un problema non solo tecnico e amministrativo, ma prima di tutto di volontà politica. Ed ancora una volta, quindi, l’attenzione dell’oratore si allarga a una più solida visione complessiva delle questioni, che non può non richiamare il peso della politica: “Occorre una vasta mobilitazione di energie e di opinione pubblica. Occorre soprattutto muovere le cose, perché su questo, soprattutto, deve essere ricercato il fondamento di una rinnovata fiducia del popolo sardo nella rinascita della nostra Isola”.
Un mese dopo, nella seduta consiliare dell’11 marzo 1966 sul Progetto di Piano quinquennale 1965-1969, l’on. Catte interviene ancora come relatore di maggioranza: “Per quanto riguarda i problemi della disoccupazione e degli squilibri territoriali e settoriali (che avevano suscitato le maggiori perplessità in occasione del dibattito sul rapporto di attuazione) il progetto del quinquennale contiene già nel testo notevoli garanzie e correttivi e per quanto riguarda le scelte che dovranno essere operate nel corso dell’attuazione, la lezione del Piano e la volontà politica della Giunta di centro-sinistra ci fanno ritenere che si opererà con una maggiore fedeltà allo spirito e alla lettera della 588, la quale vuole che gli sforzi del Piano siano rivolti verso la piena occupazione ed un più equilibrato sviluppo territoriale”.
Occorre, però, denunciare il fatto che il principio dell’aggiuntività rischia di cadere, e ciò mentre i fondi della rinascita si rivelano piuttosto esigui rispetto alle necessità della nostra isola. “Diventa perciò più che mai necessario riaffermare e rafforzare l’atteggiamento rivendicativo da assumere di fronte ai governi centrali”. Tra le rivendicazioni, una ripartizione della spesa pubblica più favorevole al Mezzogiorno e quindi alla Sardegna, tariffe differenziate per l’energia elettrica, perequazione delle retribuzioni dei lavoratori e soprattutto la rapida attuazione delle previste iniziative delle partecipazioni statali localizzate in Sardegna.
Il relatore si sofferma poi sul problema degli squilibri zonali affermando che “esiste realmente un grave squilibrio nello sviluppo delle varie zone e questo squilibrio ha manifestato la tendenza ad aggravarsi; da questo dato di fatto bisogna partire per ricercare le cause, per trovare la soluzione, la giusta e possibile soluzione… Non condanniamo tout court la politica dei poli di sviluppo, perché non crediamo che essa si riduca ad una diabolica invenzione ai danni delle zone meno fortunate… Quella che non si può accettare è l’esasperazione della politica dei poli di sviluppo e quindi l’accettazione di una naturale tendenza alla concentrazione territoriale… Ma è stata poi veramente e solamente una naturale tendenza?… La maggior parte delle scelte relative ai settori e alla localizzazione delle iniziative industriali sono state fatte in sede bancaria… E’ mancata una sufficiente vigilanza e volontà politica per impedire l’aggravarsi degli squilibri territoriali. Per questo oggi ci troviamo in una situazione che rischia di diventare pericolosa, con un malcontento diffuso ed una protesta in gran parte giustificata, alla quale bisogna dare uno sbocco politico… Io ritengo che il Piano quinquennale costituisca, nelle mani di chi presiede alla sua attuazione, uno strumento efficiente per correggere le vecchie strutture…Oggi si impone con immediatezza anche questa politica per sanare una situazione che rischia di diventare insostenibile, per ristabilire la fiducia nelle istituzioni regionali che appare gravemente compromessa; una politica di pronto intervento, per frenare l’emigrazione e cioè la perdita del capitale umano (capitale che, a voler prescindere da ogni considerazione di carattere umano e sociale, rappresenta una enorme perdita di ricchezza, del bene più prezioso di cui la Sardegna dispone in questo momento). Si tratta, però, soprattutto di avviare una politica di investimenti produttivi nei settori che maggiormente interessano le zone interne più depresse. Indichiamo gli interventi nei comprensori irrigui delle zone interne e soprattutto nel settore dell’allevamento… Occorre sanare squilibri che tendono ogni giorno di più ad aggravarsi, perché in questo settore gli investimenti sono altamente produttivi e realizzano rapidi incrementi di reddito che favorirebbero la dinamica dello sviluppo economico”.
“Io non credo – conclude Catte, opponendosi a ipotesi di rinvio o di bocciatura del piano – che la giusta protesta delle zone interne meno fortunate debba avere come sbocco il rigetto e quindi il rinvio del quinquennale. Di un tale rinvio soprattutto le zone più povere pagherebbero il fio”. E cita le rivendicazioni contenute nell’ordine del giorno votato dal Consiglio Comunale di Nuoro il 7 marzo, che a suo parere hanno trovato espressione nel quinquennale.
Cinque giorni dopo ci fu la crisi del governo regionale, risolta con una giunta quadripartita guidata dal democristiano on. Paolo Dettori.
L’ordine del giorno del Consiglio Comunale di Nuoro (presieduto da sindaco DC Gonario Gianoglio), che trovò vastissimi consensi presso le altre amministrazioni comunali della provincia di Nuoro, si soffermava sulla grave crisi economica della stessa provincia, chiedeva il rispetto del principio del coordinamento di tutti gli interventi pubblici e privati e di quello dell’aggiuntività contenuti nella legge n. 588 e l’avvio della programmazione economica dalle zone interne dell’Isola, “vere destinatarie dell’impegno assunto dallo Stato con lo Statuto speciale prima e con la legge 588 poi”… L’arretratezza di queste, infatti, secondo gli estensori dell’o.d.g., costituiva “titolo fondamentale di rivendicazione dell’intervento straordinario dello Stato”.
A tal fine si richiamavano in particolare gli articoli 1 e 2 della 588 sulle zone territoriali omogenee e sull’intervento delle aziende a partecipazione statale. Il perno del piano quinquennale rinnovato non doveva essere “un processo di industrializzazione artificioso ed estraneo alla natura ed alle stesse risorse potenziali dell’Isola, concentrato in alcuni ben determinati poli di sviluppo, ma un processo strettamente collegato alla trasformazione radicale dell’agricoltura e della pastorizia ed allo sfruttamento di tutte le risorse del nostro sottosuolo”.
Ed ancora: “Finalità fondamentale del Piano nel settore dell’agricoltura dovrà essere la trasformazione radicale della pastorizia”. Si elencavano, quindi, vari interventi nel settore, dalla regolamentazione delle intese alla diffusione dei nuclei di assistenza tecnica, dalle bonifiche alla trasformazione dei terreni comunali con l’allestimento di aziende modello.
Nella seduta consiliare del 19 luglio 1967 con all’o.d.g. Proposta e disegno di legge “Riduzione dei canoni di affitto dei terreni adibiti a pascolo per l’annata agraria 1966-67” l’on. Catte interviene come Assessore all’agricoltura e foreste, osservando anzitutto l’eccezionalità della crisi di produzione pastorale di quell’anno (40% in meno dell’anno precedente), la moria del bestiame, il forte ribasso del prezzo del latte. Nel contempo ricorda che il fitto pascolo incide mediamente per il 40%. Certo, può accadere che il concedente sia un piccolo proprietario, ma in questo caso la perdita non è tanto grande. Piuttosto, tenendo conto delle indicazioni emerse nelle conclusioni della Commissione Rinascita, si deve partire da una scelta di fondo: “Noi diciamo che le possibilità di sviluppo delle zone interne sono in gran parte legate ad un processo di ammodernamento, di razionalizzazione della pastorizia che costituisce la fonte di reddito principale e che è – bisogna ripeterlo – suscettibile di una trasformazione, suscettibile di fornire, anche in un tempo relativamente breve, rapidi incrementi di reddito”.
E a proposito del rapporto difficile tra imprenditori e proprietari, afferma: “Quando noi ci schieriamo, ci pronunciamo contro la proprietà assenteista, evidentemente non mettiamo in discussione il diritto di proprietà, ma l’assenteismo”.
Il provvedimento di riduzione del 30% per l’annata agraria 1966-67 dei canoni di affitto dei terreni adibiti a pascolo di proprietà di privati, di enti pubblici e dei Comuni, fu approvato dal Consiglio subito dopo l’intervento dell’on. Catte. L’anno successivo la riduzione fu portata al 35%.
In un intervento dattiloscritto non datato, ma collocabile nel 1969 (per accenni al IV Piano Esecutivo, alle provvidenze concesse nel 1967 e nel 1968 e all’approvazione della legge sulle intese), Catte si sofferma ancora su specifici problemi del settore agricolo ed in particolare su quelli che ritiene i due più importanti: l’agricoltura irrigua e le zone interne a prevalente economia pastorale.
Sul primo sottolinea la necessità di costruire nuove dighe, di completare le reti irrigue e di adeguare le strutture fondiarie produttive alle esigenze dello sviluppo della produzione sia attraverso il riordino fondiario sia attraverso la creazione di unità tecniche più efficienti. Ed accanto a queste esigenze pone quella del potenziamento della cooperazione, “poiché appare sempre più chiaro che soltanto con la creazione di organismi associativi di primo e di secondo grado i nostri imprenditori riusciranno a risolvere i problemi, sempre più difficili e complessi, della produzione e della commercializzazione dei prodotti agricoli”. Ricorda i relativi interventi regionali, quali i contributi e mutui concessi per il finanziamento fino al 100% della spesa per la costruzione di numerose cantine e centrali ortofrutticole.
In merito, poi, all’economia pastorale delle zone interne (il secondo importante problema preso in esame) Catte riafferma ancora una volta che “per dare un nuovo assetto a questa economia occorrono interventi che portino ad un riassetto delle strutture fondiarie, occorrono investimenti massicci per creare più efficienti ordinamenti produttivi e, infine, occorre modificare i rapporti contrattuali allo scopo di limitare il peso della proprietà assenteista, una delle principali remore allo sviluppo e all’ammodernamento della nostra zootecnia”.
Dopo essersi soffermato sui problemi della produttività delle aziende pastorali, Catte passa a quello della commercializzazione del prodotto, affermando che esso non può essere risolto né dal singolo produttore né dalla singola cooperativa ed indica una strada nuova. “È questo il momento in cui la formazione di consorzi di cooperative e meglio ancora di un unico consorzio regionale si presenta come il problema più importante e più urgente per garantire lo sviluppo della nostra zootecnia,. Infatti non solo il Consorzio sarebbe lo strumento più idoneo per risolvere i problemi della commercializzazione, ma anche per creare alcune premesse indispensabili per la soluzione di tali problemi. Il successo nelle operazioni di commercializzazione è legato alla possibilità di disporre di dati quantitativi di prodotto (è più facile collocare le grosse che le piccole partite) con caratteristiche omogenee e costanti, garantite possibilmente da un marchio di qualità. Un Consorzio sarebbe il solo organismo capace di fare accettare dalle singole cooperative una disciplina sia per quanto riguarda la qualità di vari tipi di formaggio, sia per quanto riguarda il quantitativo di ogni tipo da produrre in rapporto alle esigenze del mercato”.
Occorrono, però, per tutto l’insieme dei problemi dell’economia pastorale risorse finanziarie aggiuntive a quelle del Piano di Rinascita, quantificabili in 80 miliardi, da collocare in un piano straordinario della pastorizia, legato ad una proposta di legge nazionale che Catte pensa di presentare presto all’attenzione e all’esame del Consiglio regionale.
Lo stesso Consiglio sarà chiamato ad esaminare un’altra proposta di legge nazionale presentata dallo stesso Catte, per la regolamentazione dei contratti di affitto. Come già la legge sulle intese, la proposta riconosce all’affittuario il diritto di assumere iniziative per la trasformazione del fondo beneficiando dei contributi dello Stato e della Regione.
Un terzo disegno di legge si riferisce alla creazione di un demanio regionale dei pascoli. “Tale idea – afferma Catte – può apparire poco rispondente alle necessità immediate della nostra pastorizia, soprattutto a quanti pensano allo stato di abbandono in cui sono tenuti i pascoli comunali e al nomadismo dei pastori che in essi pascolano le loro greggi. Non si tratta evidentemente di fare un passo indietro nella storia, ma di trovare uno sbocco ad un processo involutivo nel quale sembra essersi venuta a trovare la nostra economia pastorale”.
La seduta consiliare del 4 aprile 1968 sulla Regolamentazione della “intesa” registra la discussione su un tema di cui Catte aveva già nel passato sottolineato l’importanza ai fini della risoluzione graduale dei problemi legati all’assetto della proprietà fondiaria in Sardegna. In particolare occorre ricordare che il terzo comma dell’art. 20 della legge n. 588 sul Piano di Rinascita recita: “Ove sia in atto un contratto agrario i piani di trasformazione aziendale vengono presentati e attuati d’intesa fra i contraenti e beneficiano del contributo di cui all’art. 19 in proporzione ai rispettivi apporti di capitale e lavoro nell’attuazione di piani stessi. La Regione promuoverà le necessarie intese”.
Catte interviene come Assessore all’agricoltura, affermando subito che col provvedimento sulle cosiddette intese “si intende creare un valido strumento per affrontare i problemi dello sviluppo e dell’ammodernamento della nostra agricoltura, e soprattutto della nostra pastorizia”. Con esso viene messo in discussione non il diritto di proprietà, ma l’atteggiamento assenteista di molti proprietari e si esalta, invece, la funzione dell’affittuario che intende diventare imprenditore.
L’aspetto più significativo del provvedimento (e l’innovazione portata dalla legge n. 588 sul Piano di Rinascita) sta nel fatto che la trasformazione fondiaria diventa l’occasione per raggiungere l’intesa e consentire all’affittuario di assumere responsabilità imprenditoriali. “Noi – prosegue Catte – abbiamo bisogno che nella nostra economia povera ed arretrata vengano esaltate al massimo tutte le capacità imprenditoriali, perché abbiamo bisogno di rompere l’immobilismo che trova il suo migliore sostegno nella precarietà dei rapporti e nell’assenteismo”. Assenteismo duplice, cioè non solo del proprietario, ma anche del pastore.
La soluzione, comunque, non è soluzione di problemi immediati, ma di problemi che si pongono in una lunga prospettiva. Per la formazione di aziende ben dimensionate (come numero di capi e come superficie) l’idea del demanio (nel momento in cui si pongono delle scelte di fondo) nasce non come un’idea gratuita, ma dalla considerazione delle necessità che esistono in questo settore, se vogliamo giungere ad un suo ammodernamento. Essa, però, per i problemi che comporta, compresi quelli finanziari, deve essere legata all’idea di un provvedimento che dovrà essere approvato dal Parlamento nazionale, per dare alla Regione sarda i mezzi per intervenire in maniera che non risulti troppo onerosa per la Regione.
Pochi mesi più tardi, il 17 luglio 1968, ci fu a Cagliari una manifestazione dei pastori, mentre si discuteva in Consiglio regionale della riduzione dei canoni di affitto dei pascoli per l’annata agraria 1967-1968.
Il giorno successivo, nel prosieguo della discussione, Catte ricorda l’eccezionalità di due annate sfavorevoli consecutive e lo stato di necessità che in un’economia fragile porta ad interventi di carattere assistenziale, previsti dalle stesse leggi nazionali e del MEC. “Nessuno, però, è autorizzato a sostenere che nulla è stato fatto o si sta facendo anche per affrontare e risolvere alcuni dei problemi di fondo. La costruzione di una vasta rete di caseifici sociali, l’attuazione di un programma di strade vicinali per l’importo di 20 miliardi, il piano Cassa per la pastorizia che prevede la spesa di 7 miliardi, il miglioramento dei pascoli comunali, gli interventi contributivi a favore degli allevatori che trasformano le loro aziende, il centro per la commercializzazione dei prodotti caseari e la creazione di un frigo – macello previsto dal IV esecutivo sono altrettante testimonianze di uno sforzo notevole che si fa anche per risolvere quelli che sono problemi di fondo, i problemi permanenti della nostra pastorizia”.
“Del resto, aggiunge l’assessore, i dati sull’aumento della produzione agricola in generale ed anche della produzione nel settore zootecnico stanno a dimostrare che in Sardegna, in questi ultimi anni, si è avuto un raddoppio del valore della produzione stessa; cioè, mentre il 40 % della forza lavoro ha dovuto abbandonare le campagne, nello stesso tempo il valore della produzione agricola si è più che raddoppiato”.
Nel novembre dello stesso 1968 viene discusso il disegno di legge sulle “provvidenze eccezionali a favore della pastorizia a seguito della siccità verificatasi nell’anno 1968”. Nella seduta del giorno 18 Catte interviene a nome della Giunta citando le provvidenze previste dalla legge n. 857 ( 4 miliardi e mezzo), le prime fasi della sua applicazione (dal mese di settembre), comprese le difficoltà di ordine burocratico legate all’altissimo numero di domande presentate, e le integrazioni regionali (2 miliardi e mezzo). Coglie, però, l’occasione per la seguente riflessione: “Naturalmente, con questo, non vogliamo dire che, per il fatto che si sono dati aiuti in proporzione ai danni subiti, le condizioni della pastorizia e degli allevatori non siano gravi; è la considerazione, appunto, di queste condizioni che ci ha spinto ad adottare i provvedimenti che stiamo discutendo. Non possiamo neanche dissimularci il fatto che l’indebitamento progressivo crea, e creerà sempre di più, dei problemi gravi da risolvere anche per il prossimo futuro. Tanto meno intendiamo affermare che questi interventi, per quanto cospicui, possano modificare le arcaiche strutture della nostra pastorizia o, come si dice, risolvere quelli che sono i problemi di fondo della nostra agricoltura. D’altra parte, interventi di carattere, diciamo così, assistenziale si rendono necessari anche in economie più evolute; la stessa 857, che opera in tutta Italia, sta a dimostrare che anche laddove esiste una organizzazione aziendale molto più evoluta della nostra, si rendono, talvolta, necessari interventi di questo tipo. Non c’è dubbio, però, che le calamità colpiscono soprattutto economie fragili, arretrate come la nostra”.
Nella seduta del 6 agosto 1969 dedicata alla discussione sulle dichiarazioni programmatiche del Presidente della Giunta Giovanni Del Rio, dopo una importante premessa di natura squisitamente politica (già riportata in altra parte del presente lavoro), in cui avanza l’ipotesi di un graduale superamento del quadro di centro-sinistra in termini di apertura ad altre forze della sinistra (ma il riferimento esplicito è al PCI), il consigliere socialista si sofferma sui problemi dell’economia sarda, affermando che il decollo è legato anzitutto alla possibilità di portare avanti l’industrializzazione dell’Isola, ma che “si pone la necessità di operare e precisare meglio alcune scelte di fondo, per correggere la tendenza allo sviluppo unilaterale dell’industria petrolchimica di base, senza che ancora si vedano sorgere industrie manifatturiere a valle del processo produttivo”.
Difende la scelta di Ottana cui “sono affidate le speranze di una rinascita delle zone interne dell’Isola, al fine di mettere in movimento una società gravata da una inerzia secolare e da una scarsa capacità di evoluzione verso forme più progredite”.
Ed ancora: “L’attuazione di un piano della pastorizia può rappresentare un valido contributo per questa rinascita… ma sarebbe un grave errore pensare che l’attuazione del piano della pastorizia possa, da sola, salvare l’economia delle zone interne”.
Sul tema dell’industrializzazione interviene ancora due mesi dopo, il 9 ottobre, per illustrare l’interpellanza presentata dal gruppo socialista in Consiglio Regionale, con lo scopo di portare ad una chiarificazione e ad una migliore informazione in merito, appunto, ai programmi di quel settore da realizzare nella Sardegna centrale. Osserva che la costituzione di un comitato promotore per il consorzio industriale ha provocato animati dibattiti, ma che occorre non “alimentare in alcun modo facili speranze o contribuire a suscitare gare campanilistiche tra i vari Comuni, le cui popolazioni potrebbero essere indotte a credere che 7.000 posti di lavoro di cui si è data notizia sono ormai quasi a portata di mano”.
Ed aggiunge che “le prospettive e l’industrializzazione non sono un fuoco d’artificio elettoralistico destinato a dileguare ormai nel nulla”, in quanto c’è un impegno politico assunto dal Governo, a seguito di una lotta rivendicativa condotta dalle popolazioni dell’interno e, dopo una lunga trattativa, dal Governo regionale. Tale impegno si è tradotto in alcuni atti importanti, come il riconoscimento del nucleo industriale di Ottana e le decisioni del CIPE e delle Partecipazioni Statali. “Ma l’esperienza -afferma Catte- ci insegna, purtroppo, che il tempo che passa tra impegno politico e l’inizio di attuazione di un programma può essere molto lungo”. Si porranno problemi di coordinamento che non faciliteranno le cose sia in fase di progettazione, sia in fase di realizzazione. E i tempi tecnici potrebbero allungarsi per la scarsa propensione delle Partecipazioni Statali ad impegnarsi in Sardegna.
Un altro elemento di perplessità, a parere di Catte e dei socialisti, riguarda il modo in cui le iniziative studiate per incarico del CIPE si inseriranno nel disegno generale dello sviluppo della industrializzazione in Sardegna. C’è il rischio che le Partecipazioni Statali subordinino le proprie scelte alle esigenze dei monopoli che intendono confinare l’intervento pubblico nell’apprestamento di opere infrastrutturali o nella creazione di industrie di base. “Vorremmo avere la garanzia che non vi saranno soltanto dei doppioni di altre industrie di base già esistenti, ma che l’ENI e gli altri gruppi imprenditoriali, coordinando le loro iniziative, completeranno i cicli produttivi, dando vita ad industrie manifatturiere localizzate nella nostra Isola”.
Occorre, infatti, tener conto che “l’industria sarda finora, come del resto avviene nel Mezzogiorno, produce soprattutto materie prime o semi-lavorate per industrie che si collocano altrove. In queste condizioni è difficile che si possa creare in Sardegna un meccanismo autonomo di sviluppo e di accumulazione”. Perciò il piano del CIPE dovrebbe prefiggersi lo scopo non di creare altre industrie di base, ma soprattutto di completare i cicli produttivi, con industrie manifatturiere.
Per quanto concerne, in generale, gli interventi da localizzare nel Mezzogiorno, “il Governo regionale deve fare i suoi passi perché non si ripetano le esperienze amare del passato, perché la nostra Isola non sia dimenticata, perché nelle scelte, per quanto riguarda settori ed indirizzi, non si mortifichino gli indirizzi la cui validità è stata affermata nella programmazione regionale”.
Occorre, secondo Catte, di fronte a decisioni che hanno un’importanza fondamentale per l’avvenire della Sardegna, aprire un dibattito più largo che coinvolga tutti i cittadini e tutta l’opinione pubblica nelle zone centrali dell’Isola.
“Industrializzazione e piano delle zone interne rappresentano certamente due premesse importanti per il futuro sviluppo, due conquiste della politica contestativa. Ma il piano per le zone interne potrà anche modificare, e non sarebbe poco, le strutture di una economia povera ed arretrata, soprattutto se conteremo non soltanto sull’entità dei fondi, che è notevole, ma anche sulla qualità degli interventi per modificare certe strutture e per dare un colpo decisivo alla proprietà assenteista che rappresenta appunto, ormai, un peso morto, la causa prima del ritardo. Però. anche se noi avremo nell’economia pastorale un rinnovamento, potremo riuscire ad assicurare un reddito maggiore per addetto, ma non risolveremo il problema dell’occupazione che rimane sempre il problema più grave e più urgente… Occorre valorizzare l’attività pastorale e l’attività agricola perché le industrie domani non sorgano nel deserto, perché si creino le condizioni di una saldatura tra industria ed agricoltura, perché questo rappresenta indubbiamente una delle vie più importanti per un risorgimento della nostra Isola, delle zone centrali; ma è certo che lo sviluppo economico si affida soprattutto al sorgere di un meccanismo industriale e l’industria, in tutte le economie, è il settore portante: è l’industria che crea dei nuovi posti di lavoro”.
Intervenendo nella seduta consiliare del 21 luglio 1971, con all’o.d.g. la proposta di legge e disegno di legge “Norme per l’attuazione di un piano di interventi nelle zone interne a prevalente economia pastorale, di cui alla legge 30 ottobre 1969, n° 811”, Catte osserva che “l’attuale stesura del disegno di legge risente di una certa fretta e i socialisti esprimono delle riserve per tutto ciò che di macchinoso permane in esso. Occorrerebbe un piano stralcio della Giunta, per contemperare rapidità e approfondimento delle questioni. Ci interessa, infatti, un piano che non comprometta per tanti anni le condizioni di sviluppo in cui la rinascita delle zone interne può effettuarsi, rispettando le esigenze della globalità, della aggiuntività, dei piani zonali, del demanio regionale, del ruolo che dovrà assolvere l’Ente di sviluppo nell’attuazione del Piano”. Questo non può essere settoriale, ma deve essere globale, perché “il problema delle zone interne non è soltanto un problema della pastorizia, non è soltanto un problema dell’agricoltura, è un problema dello sviluppo generale di tutta l’economia, delle condizioni di vita delle zone interne”.
Più avanti il consigliere socialista chiarisce tale concetto affermando che “un piano che si risolvesse soltanto in un piano per la pastorizia sarebbe contro la lettera e contro lo spirito della legge 811, che non parla di piano per la pastorizia, parla di piano per le zone interne, che è cosa ben diversa; sarebbe contro gli interessi, soprattutto contro le aspettative delle popolazioni delle zone interne… L’impegno della Giunta non può essere soltanto un impegno rivolto ai problemi della pastorizia, ma deve essere rivolto a tutte le risorse delle zone interne, a tutto ciò che può consentire la creazione di un meccanismo di sviluppo in queste zone… Il problema delle zone interne è, prima di tutto, un problema di occupazione, e il problema dell’occupazione è legato allo sviluppo ed alla valorizzazione di tutte le risorse… Un piano per le zone interne non può risolversi, quindi, in un elenco di interventi settoriali, cosa che invece le due proposte di legge ci hanno presentato: tutta una elencazione di interventi ma non in maniera pianificata”.
Ma poiché la predisposizione di un piano globale richiede tempo – afferma Catte – ed abbiamo già atteso due anni, diciamo che si può fare intanto un piano stralcio immediato per cominciare a spendere i fondi nel tempo più breve.
Nella seduta del 23 marzo 1972, nel corso di una forte requisitoria nei confronti della DC, che per la seconda volta ha scelto la formazione di una giunta monocolore (quella presieduta da Salvatorangelo Spano), Catte afferma che occorrono non blocchi politici contrapposti, ma ampie convergenze ed equilibri più avanzati per risolvere i molti e gravi problemi della Sardegna. Ed accenna, in particolare, a quelli relativi al completamento dei programmi delle zone irrigue, “che non potrà essere portato avanti se non con una vera e propria programmazione per progetti operativi che consenta di risolvere, in maniera organica, i problemi della produzione, della trasformazione e della commercializzazione dei prodotti”.
“Si consideri anche – afferma l’oratore socialista – l’esigenza di definire finalmente una linea di sviluppo economico e di crescita civile delle nostre popolazioni in rapporto alle possibilità che ci potranno essere offerte dalle proposte della Commissione parlamentare di inchiesta. Va da sé che queste proposte potranno diventare realtà solo se riusciremo a creare un vasto schieramento di forze autonomistiche per condurre una battaglia rivendicativa e se sapremo fornire a questo schieramento una piattaforma comune di lotta. Sono questi problemi di tale entità che difficilmente possono essere affrontati da una sola forza politica, o da alcune forze politiche in un clima di lotta o di crociata.
Io mi voglio soffermare, per meglio chiarire questo pensiero, sul piano per le zone interne, di cui tutti parlano e nessuno purtroppo sa dove e che cosa sia. Se veramente con questo piano vogliamo perseguire un obiettivo di profondo rinnovamento, il piano dovrà modificare abitudini, comportamenti, forme di vita organizzate, strutture produttive oggi esistenti. Si urterà non solo contro certi interessi, ma anche contro certi pregiudizi, vecchie abitudini che sono proprie di popolazioni arretrate. Ora, possiamo pensare noi ad una programmazione che si cala dall’alto e che diventa volta per volta terreno di scontro fra le grandi organizzazioni politiche e sindacali? A me pare che seguendo questa via tutti i problemi finiranno per diventare molto più difficili. Se vogliamo affrontare seriamente questi problemi è necessario cercare in ogni modo utili convergenze e stabilire collegamenti”.
E porta l’esempio dei problemi aperti dalla legge De Marzi-Cipolla, di regolamentazione dei fitti dei fondi rustici. “E’ una legge -sostiene Catte che nella maggior parte delle regioni d’Italia non ha creato gravi problemi, ma in Sardegna e in Sicilia ha invece danneggiato una numerosa categoria di piccoli proprietari. La piccola proprietà è, in Sardegna, molto spesso frutto di lavoro, di risparmio, assolve alla funzione di garantire il minimo di sicurezza economica a chi non gode di altre forme di assicurazione. Nel corso delle trattative per la formazione di una Giunta, noi socialisti prospettammo la necessità che non si tentasse di abrogare la legge De Marzi-Cipolla che rappresenta sempre una fondamentale conquista. Il problema era per la Regione di completare quella legge con altri provvedimenti che impedissero che vittima di una trasformazione dei contratti dell’agricoltura fosse questa categoria dei piccoli proprietari. E’ una via noi indicavamo, che poi è la via indicata dalla Commissione parlamentare di inchiesta, la via dell’acquisto di questi terreni oppure della concessione di vitalizi per assicurare condizioni di vita per cui questa categoria non risulti in alcun modo danneggiata, ma che anzi si creino le condizioni per cui questa categoria sia essa stessa interessata a lottare per questo rinnovamento. Queste sono esigenze che noi abbiamo prospettato e sulle quali è possibile trovare delle convergenze. Ma queste convergenze come è possibile trovarle? Obiettivamente, le possiamo trovare con la destra che nega la legge, che strumentalizza la legge per creare motivi di tensione nelle campagne e trarne il massimo profitto politico? O con tutte quelle forze che possono essere di guida, che possono assolvere una funzione di guida nel mondo pastorale, nei confronti dei ceti a cui dovremmo assicurare condizioni nuove? Non solo, se c’è un sacrificio di carattere finanziario, io credo che questo sacrificio possa essere giustificato non soltanto sul piano sociale ma anche su quello economico e produttivo.
In fondo, la legge De Marzi-Cipolla ci costringe finalmente ad affrontare quello che è uno dei più grossi problemi della nostra agricoltura, quello della frammentazione della proprietà, che rappresenta allo sviluppo della produzione un ostacolo non inferiore a quello rappresentato forse dalla proprietà assenteista. Può diventare un’occasione per giungere, anche attraverso la costituzione di un demanio regionale, ad un riordinamento, ad una nuova struttura della proprietà, o della gestione della terra. Ecco le vie che è possibile trovare, ma è evidente che queste convergenze le forze popolari le possono trovare per affrontare costruttivamente il problema ed evitare che pericolose tensioni si creino nelle campagne”.
Particolare interesse provocarono, nel dibattito economico e politico svoltosi in Sardegna nei primi anni ’70, i lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna, presieduta dal sen. Giuseppe Medici, e le conclusioni alle quali la stessa giunse, tradotte nella relazione finale, che fu oggetto di discussione della seduta di Consiglio Regionale del 3 luglio 1973.
In tale occasione Peppino Catte ebbe modo di affermare, tra le altre cose, che “tanto nel mondo politico che in quello sindacale si è venuta maturando la consapevolezza della necessità di una svolta profonda nella politica meridionalistica. E’ una consapevolezza che nasce prima di tutto dalla constatazione che il divario tra Nord e Sud negli anni ’50 e ’60 non si è affatto attenuato, ma anzi, sotto certi aspetti, si è venuto aggravando”.
“Il nuovo Piano di rinascita non può essere la continuazione pura e semplice del primo Piano. Non lo può essere proprio per certi aspetti negativi, dai quali noi sardi dobbiamo ricavare utili insegnamenti, e non lo può essere anche per certe esperienze maturate in campo nazionale, per quanto riguarda gli indirizzi e gli strumenti della politica di programmazione”.
E’ necessario che la Regione si dia gli strumenti indispensabili per elaborare ed attuare una più seria e impegnativa programmazione regionale… La particolarità della situazione sarda rispetto a quella di altre Regioni meridionali sta nel malessere sociale, nella arretratezza di vaste zone dell’Isola, che sono alla radice dei fenomeni della delinquenza.
L’oratore esprime, poi, un giudizio favorevole sul progetto di legge n° 509 da cui nascerà la legge 268 di rifinanziamento del Piano di rinascita, perché:
1) esalta il ruolo della Regione sarda nell’attuazione di una politica di programmazione, sottraendola in gran parte alla tutela, per esempio, della Cassa per il Mezzogiorno;
2) la 509 inaugura un nuovo tipo di programmazione, che potrebbe consentire alla Regione di attuare una trasformazione della nostra economia, soprattutto della nostra agricoltura, attraverso la realizzazione di progetti speciali o di piani zonali;
3) la 509 pone come base storica e politica per la rivendicazione autonomistica il malessere sociale delle zone interne dell’isola manifestatosi anche col fenomeno del banditismo.
Un ulteriore intervento di questo tentativo di ricostruzione critica risale alla seduta consiliare del 10 ottobre 1973, in cui si era chiamati a discutere e deliberare su Modifiche e integrazioni alla L. R. 25/71, recante norme per l’attuazione di un piano di intervento nelle zone interne a prevalente economia pastorale di cui all’art. 1 della legge 30 ottobre 1969 n. 811.
“Dopo quattro anni di vicende varie -afferma Catte- finalmente il Piano per le zone interne sta per giungere in porto. Io credo che sia utile tornare indietro, fino alle battaglie, alle iniziative che prima del 1969 hanno condotto all’approvazione della legge n. 811 (quella degli 80 miliardi, che è appunto del 1969), per verificare se l’impostazione che al Piano in esame è stata data corrisponde alle rivendicazioni che allora vennero avanzate e alle aspettative che in quegli anni la prospettiva di un piano per le zone interne suscitava. Tutti ricordiamo come è venuta a maturazione, in quegli anni, quella che possiamo chiamare la questione delle zone interne. Nel corso del dibattito consiliare, ma soprattutto con le lotte popolari che si svilupparono allora in molti centri delle zone interne, emerse chiaramente un grave limite del piano quinquennale di rinascita, nel quale nulla era stato previsto per correggere la linea di sviluppo economico che fino a quel momento si era affermata, linea fondata soprattutto sulla politica dei poli di sviluppo…
Il piano quinquennale ignorava totalmente l’esistenza di una questione delle zone interne… Le lotte e le proteste di intere popolazioni e più tardi l‘aggravarsi del fenomeno del banditismo, espressione tipica di un grave malessere sociale nell’interno dell’Isola… l’inchiesta della Commissione regionale rinascita nelle zone interne. Di lì nacque la legge 811 che stanziava 80 miliardi. Ma non si fecero né la delimitazione delle zone interne né un piano per la spendita dei fondi, nonostante gli studi del prof. Orlando e della sua équipe per la predisposizione dei piani zonali con l’indicazione delle varie ipotesi di sviluppo… si sentì il bisogno dopo due anni di varare una legge sul Piano con cui la Regione si impegnava per altri 20 miliardi (L. R. 25/71)…
Si è finito per scoprire che tutto sommato le zone interne non esistono, se è vero che ormai comprendono il 90% dell’Isola… Noi socialisti non votammo la legge 25 perché era un vero centone di emendamenti vari…
Dobbiamo modificare o eliminare tutto ciò che rappresenta il residuato di una politica di interventi particolaristici, occasionali, clientelari… ammodernare la pastorizia… una politica fondata sugli incentivi può conseguire buoni e rapidi risultati solo con l’indicazione di determinati obiettivi e indirizzi… ma in Sardegna l’esperienza ci dice che gli incentivi o si disperdono in piccoli interventi di carattere assistenziale o sono vanificati per la creazione di aziende che nessuno poi gestisce… Il fatto scandaloso dell’Ente di sviluppo che è veramente arrivato a un limite che io non so se sia più oltre sostenibile… un Ente di sviluppo che, nelle condizioni attuali, non è un Ente di sviluppo…
La via della ricomposizione fondiaria è impraticabile, in Sardegna come altrove… La via non può essere che quella dei piani comprensoriali o di valorizzazione… I piani di valorizzazione nascono proprio dall’esigenza di rimuovere quelle condizioni negative che oggi effettivamente mortificano l’iniziativa privata e così vanificano la politica del contributo… consapevolezza delle difficoltà, delle resistenze… occorre regionalizzare l’Ente di sviluppo e quindi ristrutturarlo al fine di renderlo uno strumento agile, operativo o, come si dice, un’agenzia… occorre favorire la cooperazione, ma quella vera”.
[…]
Conferenza stampa
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Intervento sui problemi dell’ordine pubblico e della sicurezza nelle campagne

In data 22 settembre 1966 il Consiglio Regionale dedicò una seduta alla discussione della drammatica situazione dell’ordine pubblico e al clima di turbamento generale derivante dai fatti di criminalità verificatesi nel corso dell’estate appena trascorsa. Era riesploso, infatti, in termini gravissimi il fenomeno del sequestro di persona, con il rapimento di ben dieci persone. Fu, purtroppo, l’inizio di una stagione terribile che sarebbe durata altri due anni, con altri ventitre sequestri, alcuni dei quali si conclusero con la morte degli ostaggi.
Catte, in quella seduta consiliare, nell’introdurre il suo ampio, lucido ed appassionato discorso, accenna anzitutto agli atti criminosi che si sono succeduti nel corso dell’estate con una sequenza e una drammaticità che forse non trovano riscontro nel passato vicino e lontano della Sardegna. E subito dopo: “Oggi, anche fuori dalla Sardegna, si discute della gravità della situazione sarda, per quanto riguarda la pubblica sicurezza, si parla con insistenza dei rimedi e dei provvedimenti che è necessario adottare con urgenza. Non era possibile, pertanto, che rimanesse estraneo ed assente, in questo dibattito, e proprio nel momento in cui si annunciano importanti decisioni, il Consiglio regionale, che è l’organo più qualificato e più autorevole non solo ad esprimere i voti ed i sentimenti del popolo sardo, ma anche a fornire indicazioni e suggerimenti che valgano a chiarire una situazione così complessa, o a trovare una via d’uscita che si presenta tanto difficile. Il carattere clamoroso e spesso drammatico assunto dalle gesta criminose compiute in quest’estate, è valso, indubbiamente, a scuotere profondamente l’opinione pubblica, ma il loro verificarsi non può, in alcun modo, essere considerato come qualcosa di imprevisto o di imprevedibile.
Sapevamo già che l’abigeato sardo aveva assunto proporzioni paurose, dopo che le forze di polizia erano state concentrate in alcuni punti o utilizzate per rendere più sicuro il traffico lungo le grandi vie di comunicazione. Rimaste sguarnite le campagne, non più controllate con un assiduo servizio di piccole pattuglie come un tempo i passaggi obbligati per il trasporto del bestiame rubato, gli abigeatari potevano agire con piena sicurezza, e questa sicurezza accresceva ogni giorno di più la loro audacia.
Sapevamo, inoltre, che la pratica delle lettere minatorie a scopo di estorsione si era ormai largamente diffusa, per cui gli impresari o i cittadini facoltosi, quando non decidevano di cambiare sede, finivano col riconoscere rassegnati l’esigenza di un secondo esattore, e pagavano in silenzio… Era però inevitabile che questo sistema e questa condotta finissero col superamento del limite entro il quale i malviventi potevano operare con una certa tranquillità. E tale limite i malviventi superarono quando le estorsioni, i ricatti e le richieste divennero talmente eccessivi da suscitare una più energica reazione da parte delle vittime. I malviventi sanno che il loro sistema è destinato a finire quando essi non saranno più in grado di suscitare il terrore sul quale il sistema si fonda. Essi perciò capirono che bisognava dare una punizione esemplare ai renitenti, in modo che tutti capissero che non era possibile uscire o evadere dal sistema.
Questa può essere una delle ragioni che spiegano la crudeltà e la tracotanza eccezionale rivelate dai recenti delitti. E’ la tracotanza di una vasta categoria di malviventi, i quali, con il terrore, hanno creato una situazione che consente loro di operare con una certa sicurezza, tenendo in scacco le forze di polizia. I malviventi sanno di avere conquistato una posizione che si regge sulla paura, sull’omertà, sul terrore, e intendono conservarla per procedere oltre con imprese più audaci e più rischiose. Ma non è stata soltanto questa la ragione che ha spinto i malviventi a procedere oltre, in questa estate. I mesi estivi sono quelli che precedono il rinnovo dei contratti di affitto e quest’anno, in questo campo, regna la massima incertezza. Gli alti prezzi del latte realizzati nella scorsa annata hanno fatto salire gli affitti dei pascoli, ma i pastori oggi vivono sotto l’incubo di un tracollo del prezzo del formaggio, e già molti commercianti si trovano in difficoltà nel corrispondere ai pastori il prezzo pattuito per il latte. A sopportare le conseguenze della crisi è sempre, è inevitabilmente, la categoria dei pastori. E poiché la maggior parte degli abigeatari e degli autori delle rapine e delle estorsioni appartiene all’ambiente dei pastori, non c’è dubbio che anche la situazione economica ha contribuito, questa estate, a spingere alcuni pastori ad attività delittuose.
Ma quelle che sono venuto esponendo sono le cause che possono servire a spiegare, almeno in parte, l’aggravarsi del fenomeno della delinquenza. Tuttavia il problema che ci sta di fronte non è quello dell’aggravarsi periodico di un fenomeno, bensì quello di individuare i motivi profondi di un male che è antico quanto la Sardegna e di cui dobbiamo avere ben chiare le radici, che sono molto profonde e vanno ricercate nella struttura stessa della vecchia società isolana.
La profonda emozione suscitata dai delitti compiuti negli ultimi mesi, non si giustifica soltanto con la particolare ferocia usata dagli assassini o con il numero dei misfatti. Io ritengo che il turbamento di tutti i sardi abbia anche un’altra ragione, più profonda. Il fatto è che questi episodi di delinquenza sconvolgono profondamente la vita civile, paralizzando la vita economica, e rivelano quanto deboli siano le strutture della vecchia società sarda, così come esse sopravvivono nella parte interna della Sardegna. I fatti delittuosi, rivelatori di una arretratezza che non siamo riusciti ancora a superare, suonano anche come un atto di accusa contro lo Stato italiano che a un secolo dal compimento dell’unità si rivela ancora incapace di fronte alle manifestazioni più drammatiche di questa arretratezza. E suona anche come un atto di accusa nei confronti della classe dirigente sarda e, in ultima analisi, di tutti i Sardi per tutto ciò che con l’autonomia poteva essere fatto e non è stato fatto.
Di questo dobbiamo tener conto per valutare le diverse reazioni della opinione pubblica. Da più parti si chiede che sia posta fine ad una situazione che è divenuta intollerabile e che costituisce un’onta per un Paese civile. Si chiedono perciò leggi eccezionali, l’inasprimento delle pene, l’aumento delle forze di polizia e soprattutto una più larga applicazione della legge che prevede il confino di polizia. Noi siamo convinti che occorre intervenire e con urgenza per reprimere il fenomeno della delinquenza; siamo convinti inoltre che il momento della repressione, pur non essendo il solo nell’azione da svolgere contro il banditismo, è il più immediato ed urgente. Acquista perciò un’importanza particolare il problema delle misure e dei mezzi idonei a conseguire lo scopo, il problema, ad esempio, della efficienza delle forze di polizia e della rispondenza dei metodi da queste seguiti finora nella lotta contro il banditismo.
Riteniamo opportuno rilevare, tuttavia, che sarebbe un grave errore credere che le misure più gravi (come le leggi speciali o il confino)siano per ciò stesso anche le più efficaci. Rimane infatti da dimostrare se ad impedire o limitare il successo nella lotta contro la delinquenza sia stata finora, ad esempio, la mitezza delle pene. In fondo tutti quanti abbiamo lamentato, tante volte, che il pastore sardo che ruba quattro, cinque pecore finisce con l’avere più galera di chi ruba i milioni e i miliardi. E, d’altra parte, nessuno può dimostrare che quando tagliavano le mani ai ladri si rubasse di meno. Non mi pare che sia in questa direzione che noi dobbiamo muoverci.
Mi sembra utile premettere alcune osservazioni dalle quali è possibile trarre importanti conclusioni. E’ convinzione largamente diffusa che la Sardegna abbia una specie di primato nelle attività delittuose. Io ho qui l’annuario statistico del 1965, dal quale si deduce che non esiste affatto un primato di questo genere per la Sardegna. Vi sono qui alcune cartine dove si analizza la posizione delle varie Province in relazione ai diversi tipi di delitti ed appare chiara questa posizione della Sardegna: appare chiaro anche che in Sardegna, tra le Province, quella di Nuoro è in coda, contrariamente a ciò che si pensa. Da queste statistiche si deduce che se la situazione della nostra Isola si presenta con i caratteri di particolare gravità, ciò si deve non al numero dei delitti, bensì ad alcune manifestazioni tipiche della delinquenza sarda (come l’abigeato, le rapine, le estorsioni) che sono legate all’arretratezza della nostra Isola e sono tali da turbarne profondamente la vita economica. E’ questa una considerazione molto importante perché condiziona tutto il discorso sull’azione da svolgere, nei diversi settori, per giungere ad una soluzione del problema operando sia in una prospettiva vicina, sia in una prospettiva più lontana. La delinquenza è di tutti i Paesi, anche dei più progrediti come gli Stati Uniti d’America. Le attività criminose che suscitano tanto turbamento in Sardegna sono quelle che ricevono una impronta particolare dall’ambiente in cui esse vengono esercitate, che è appunto l’ambiente tipicamente sardo, caratterizzato dall’economia pastorale, dall’allevamento brado del bestiame in contrade solitarie, aspre e deserte, che offrono condizioni favorevoli al pascolo abusivo, al furto del bestiame e a tutti gli atti connessi con l’abigeato.
Il pastore nomade che conserva le abitudini, e quindi anche le concezioni di un tempo passato, è spesso spinto all’abigeato ed all’estorsione non tanto dalla miseria – non crediamo che sia la miseria causa immediata della delinquenza – quanto dalla precarietà della sua condizione. Costretto come è a rinnovare contratti e pascoli quasi ogni anno, esposto, d’altra parte, a subire l’esosità degli alti fitti o il ricatto dell’industriale caseario, vittima di quando in quando delle conseguenze di annate disastrose o della moria del bestiame, il pastore sardo si trova spesso a correre il rischio di perdere, in pochi mesi, quanto è venuto acquistando in anni di fatiche. E’ in situazioni come queste che al pastore sardo il furto si presenta come il mezzo per superare la crisi. E il furto non può che essere il furto di bestiame, che poi non è che il primo passo verso tutta una serie di altri reati: la violenza armata, l’omicidio e l’estorsione e poi la latitanza e la vendetta e il banditismo.
Quando si parla del problema della delinquenza sarda ci si riferisce quindi non ad una presunta maggiore disposizione al delitto che sarebbe nei Sardi, e neppure a tutte quelle attività delittuose che, per esempio, nei centri cittadini sardi assumono le stesse forme che nei centri di altre regioni, e vengono combattute con gli stessi metodi e con lo stesso successo.
Queste attività delittuose non pongono perciò problemi particolari. Sono le attività delittuose come l’abigeato e la catena dei delitti che l’abigeato si tira dietro e che vengono esercitate nelle zone interne ad economia pastorale, quelle che oggi ci pongono questi problemi particolari, sia per quanto riguarda la prevenzione attraverso il risanamento dell’ambiente, sia per quanto riguarda la repressione. Si è discusso tanto di questi due aspetti dell’azione da svolgere contro la delinquenza, fino quasi a contrapporli, come se l’uno non fosse complementare dell’altro. Certamente finché l’economia pastorale conserverà le sue forme arretrate, la carica delinquenziale che può essere nel pastore sardo, come del resto nel cittadino di ogni paese, non potranno che manifestarsi nelle forme attuali rivelatrici, appunto, di tale arretratezza e perciò perturbatrici della vita civile.
Un’azione repressiva più efficiente potrà far diminuire il numero dei delitti, ma solo la trasformazione dell’ambiente e delle attuali strutture economiche e sociali potrà consentire, se non l’abolizione, l’evoluzione della criminalità verso forme socialmente meno pericolose ed eversive, proprie appunto di un ambiente più evoluto. Perciò siamo convinti che bisogna riconoscere ai recenti episodi di criminalità il carattere di denuncia di una situazione di arretratezza che deve ormai scomparire. Siamo convinti che il Piano di rinascita deve costituire il primo strumento nella lotta contro le forme tipiche della delinquenza sarda. Se questa lotta si presenta come una necessità urgente, vuol dire che con urgenza occorre intervenire per portare avanti la trasformazione di una economia povera e arretrata.
Una verità deve essere ben chiara per tutti, soprattutto in questo momento in cui ci accingiamo ad ottenere dal Governo il finanziamento di un piano particolare che tende a metterci in condizioni di operare nelle zone dove infierisce di più il fenomeno della delinquenza. Non si tratta, quando noi chiediamo di intervenire nelle zone interne, di tenere in piedi un’economia malata, priva di prospettive e quindi destinata a perire. Non si tratta di operare con una finalità soltanto sociale, senza alcuna giustificazione di carattere economico e cioè produttivistico. Non si tratta di un intervento che sia in contrasto con le esigenze di una politica di piano che tende in particolar modo all’aumento della produzione. L’allevamento è oggi l’attività più redditizia in Sardegna, quella suscettibile di un più rapido sviluppo e di un più grande accrescimento del reddito. Occorre modernizzare questa attività per accrescerne il reddito ed assicurare un più alto livello di vita al pastore trasformandolo in un moderno allevatore. Occorre intervenire con larghezza di mezzi e con coraggio, per trasformare le vecchie strutture con l’attuazione di alcune riforme già previste nel Piano di rinascita, come ad esempio il riordino fondiario, la diminuzione del peso della rendita fondiaria e, soprattutto, con l’istituto delle intese. Se gli obiettivi del Piano in questo campo saranno, con rapidità, realizzati, si potrà giungere, con la trasformazione della economia pastorale, integrata con altre attività e colture, alla creazione di aziende pastorali o agro-pastorali che consentiranno di fissare il pastore al terreno dandogli la possibilità e l’interesse a migliorarlo.
Se le vaste solitudini delle zone centrali saranno popolate con la creazione di aziende più moderne, allora muteranno anche le condizioni della sicurezza perché avremo creato una situazione meno favorevole al pascolo abusivo, all’abigeato, alle estorsioni ed agli omicidi. Certo nessuno può pensare che non rimane ormai altro che aspettare che si attui il Piano di rinascita. Le misure repressive si impongono con urgenza al fine di perseguire, di individuare e punire i colpevoli, di scoraggiare i delinquenti.
D’altra parte, in alcune zone dell’isola, non vi potrà neppure essere rinascita se non saranno garantite le condizioni di sicurezza alle popolazioni e agli imprenditori. Non è un mistero per nessuno che lo sviluppo economico di vaste zone dell’interno, e in particolare del Nuorese, è compromesso dalla mancanza di sicurezza nelle campagne. Gli operatori locali vengono scoraggiati e talvolta costretti ad emigrare; quelli di fuori preferiscono altre zone più tranquille. La disoccupazione e l’emigrazione possono essere poste in relazione anche al fenomeno della delinquenza. Ma se siamo convinti che è necessario potenziare la lotta contro la delinquenza, dico subito che non condivido la fiducia di molti nell’efficacia risolutiva che avrebbero leggi speciali o un più facile ricorso al domicilio coatto. Non la condivido perché non credo che sia stata la mancanza di leggi speciali, o di altre misure del genere, a rendere meno vigorosa ed efficace la lotta contro il banditismo. Così non penso che la loro introduzione oggi possa risolvere rapidamente un problema che sembra destinato a ripresentarsi periodicamente in tutta la sua drammaticità.
A coloro che non si stancano di ripetere che alcuni decenni or sono, quando funzionavano le Commissioni per il confino, la delinquenza era diminuita, bisogna ricordare che tale diminuzione si riferiva, intanto, solo ad alcuni reati mentre, per esempio, era salito notevolmente il numero degli omicidi, come conseguenza delle vendette contro confidenti o contro presunti confidenti. Inoltre a spiegare la diminuzione si possono citare altri fattori, come quelli, per esempio, che si riferiscono ai metodi con i quali veniva organizzata la lotta contro il banditismo dall’Arma dei Carabinieri. Io ritengo che prima di chiedere leggi speciali o altro, sia opportuno chiedersi quali sono le ragioni per le quali le forze di polizia ottengono oggi risultati meno lusinghieri di un tempo, e appaiono spesso impotenti di fronte a certe manifestazioni della delinquenza. A mio giudizio la causa di fondo va ricercata nel fatto che oggi, più di ieri, si è creata una grave frattura tra le forze di polizia e l’ambiente in cui esse operano.
La lotta contro la delinquenza ha sempre presentato in Sardegna particolari difficoltà che possono essere superate con una buona conoscenza dell’ambiente, delle sue leggi e delle sue usanze, dei luoghi e dei metodi con cui operano i delinquenti. Certo le forze di polizia hanno sempre dovuto urtare contro il muro dell’omertà; nessuno parla, nessuno denuncia o fa da testimone per aiutare l’opera degli agenti dell’ordine. Ma non è del tutto impossibile aggirare l’ostacolo dell’omertà. Se è vero che pochi sono disposti a testimoniare per l’accusa, è anche vero che nei nostri paesi sono molti quelli che sanno e sono quindi in grado di fornire informazioni preziose. Non c’è dubbio che nel passato l’azione dei carabinieri nei nostri centri doveva la sua efficacia, più che a leggi speciali, alla capacità che essi avevano acquistato nell’attingere queste informazioni, stabilendo stretti contatti con l’ambiente sia negli abitati, sia perlustrando attivamente le campagne e visitando, ad esempio, gli ovili in servizi ben organizzati di pattuglia. In questo modo essi avevano la possibilità di attingere notizie non solo dai confidenti prezzolati, ma anche dai pastori, dagli agricoltori e da persone più qualificate, che parlavano nella misura in cui potevano fidare interamente sulla discrezione di coloro a cui facevano le loro confidenze. Chi comandava la stazione dei carabinieri era così in grado di controllare e valutare le notizie avute dai confidenti, e poteva indirizzare meglio le indagini per procurarsi quelle prove che gli informatori non erano disposti a fornire Le pattuglie a piedi o a cavallo tenevano sotto controllo tutto il territorio e, in particolare, certi passaggi obbligati.
Oggi le cose non stanno più allo stesso modo. Si è creata una frattura tra le forze di polizia e l’ambiente in cui esse operano quale, forse, non si è mai avuta nel passato…
Certo il modo d’agire della delinquenza si è fatto più scaltro, più aggressivo e più complesso. Ciò però non vuol dire che oggi sia meno necessario, o meno possibile di ieri, stabilire un più stretto legame con l’ambiente; il che pone problemi che sono prima di tutto delle forze di polizia, ma non soltanto delle forze di polizia. Quando un problema assume proporzioni tali da condizionare tutto lo sviluppo dell’Isola, è chiaro che tutta la classe dirigente, tutti i Sardi e, in particolar modo, gli uomini di cultura, devono sentirsi impegnati. Invece, non solo l’ambiente in generale si è mantenuto abbastanza estraneo, ma anche la classe dirigente, anche gli uomini di cultura e coloro che pure sono depositari di preziosa esperienza – e non sono pochi – e di conoscenza del problema, non hanno voluto offrire e non hanno avuto la possibilità, forse, di offrire questo loro contributo. Così la frattura si è venuta accrescendo di giorno in giorno. Da un lato cresceva la sfiducia e quindi l’omertà, dall’altro le forze di polizia finivano con il diventare una specie di corpo estraneo, come appunto ho detto, una specie di esercito di occupazione… E’in questa situazione di debolezza che molti sono indotti a chiedere leggi speciali. A coloro che chiedono il ripristino del confino, intanto è facile rispondere che il confino, la legge che prevede il confino esiste già…
Se poi chiedono il ripristino della vecchia Commissione, è bene che riflettano sulle conseguenze cui porterebbero una troppo facile distribuzione degli anni di confino. Se il domicilio coatto venisse assegnato senza alcuna garanzia, senza contraddittorio, senza possibilità di difesa, e quindi, come talvolta è avvenuto nel passato, solo sulla base di informazioni incontrollabili, di confidenti prezzolati, non tarderebbe ad avere inizio la lunga serie delle vendette contro i delatori o i presunti tali. E’ del resto quello che, come dicevo, è avvenuto molti anni fa.
Si dice che, in fondo, nei paesi è facile individuare chi sono gli autori dei furti e delle rapine. Ma tra questi è probabile che finirebbero con l’andare al confino solo quelli che non hanno la protezione di persone o di fazioni influenti, e ci andrebbero con la coscienza di essere vittime di una discriminazione. Perciò penserebbero subito alla vendetta, e tra qualche anno noi staremmo qui a discutere in una situazione, per molti riguardi, peggiore di quella attuale.
Ma c’è un altro aspetto della questione, su cui vorrei richiamare l’attenzione. Il ricorso a leggi speciali potrebbe servire ad eludere quello che è il problema di fondo: mettere le forze dell’ordine, attraverso una maggiore collaborazione dell’ambiente, in grado di individuare, con le prove, i malviventi per farli condannare con le procedure ordinarie. Si ha talvolta l’aria di voler dire: poiché non riesce a condannare con le prove, condanniamo con gli indizi forniti chissà da chi e chissà come. Perché con le vecchie commissioni erano spesso, in ultima analisi, i delatori o le fazioni avversarie quelle che fornivano gli elementi per mandare al confino. Solo la presenza di un magistrato oggi può dare la possibilità del contraddittorio, può dare una certa garanzia. Il problema di fondo di cui si parla è quello di colmare la profonda frattura tra le forze di polizia e l’ambiente in cui esse operano. È questa la direzione in cui ci si deve muovere, facendo tesoro dell’esperienza passata e tenendo conto delle nuove situazioni. Per raggiungere questo scopo, in un lasso di tempo che certamente non può essere breve, occorrono varie misure, nessuna delle quali presenta poi particolari difficoltà. Occorre che i sottufficiali che comandano le stazioni dei carabinieri tornino ad assolvere lo stesso ruolo che avevano un tempo, liberandoli, per quanto è possibile, del lavoro burocratico, per essere messi in condizioni di stabilire più stretti rapporti con l’ambiente, con i cittadini e non solo con i confidenti, e per poter dirigere il servizio delle pattuglie che devono tornare a perlustrare le campagne e mantenere rapporti con il mondo dei pastori…
A questo punto dirò che sono d’accordo con la proposta dell’onorevole Contu che il servizio dell’abigeato passi ai carabinieri, i quali però devono essere messi in condizioni di poterlo svolgere. Ma se veramente si vuole colmare la frattura di cui si parla, bisogna anche pensare ad altre forme di collaborazione, da realizzarsi tra le forze dell’ordine e i cittadini. Mi riferisco, in primo luogo, al ripristino ed alla riorganizzazione delle vecchie compagnie barracellari che in più di un centro hanno dato ottima prova, ed alle mutue.
Il barracellato costituisce la forma migliore, e la più dignitosa, offerta ai cittadini sardi di collaborazione con la forza pubblica, perché in questo caso la collaborazione non ha più il carattere di venale delazione. Inoltre la sua attività può integrare, nel modo migliore, dovutamente coordinata e controllata, l’azione delle forze di polizia e può sopperire alla minore esperienza di luoghi e dell’ambiente in cui queste ultime si muovono. Non credo d’altra parte che sia impossibile ovviare agli inconvenienti che, altre volte, possono essersi verificati in queste compagnie. Mutue e barracellato potrebbero avere un ruolo decisivo, nel prossimo futuro, nella lotta contro la delinquenza. Ma la loro creazione o riorganizzazione richiede un impegno che non può essere solo delle forze di polizia, ma deve essere anche della classe politica, dei partiti, e di tutti coloro che sono in grado di dare il proprio contributo di esperienza e di dottrina.
Questo mi sembra il concetto da ribadire: la lotta contro la delinquenza in Sardegna deve impegnare tutti, non solo le forze di polizia. Deve rappresentare un impegno civile e morale della classe politica, degli uomini di cultura, di tutti i cittadini. Se oggi esiste una netta frattura tra l’ambiente e le forze di polizia, va da sé che la responsabilità non può ricadere soltanto su queste ultime, così come non spetta a queste soltanto il compito di colmare la frattura. Questo compito è anche nostro e lo assolveremo, in primo luogo, con i suggerimenti che la conoscenza dell’ambiente ci può mettere in grado di dare; con le critiche, che devono essere costruttive, quando ci sembra che i metodi della lotta contro la delinquenza siano poco rispondenti allo scopo; con critiche aperte e quindi responsabili.
E’ strano che uomini che non esiterebbero a denunciare metodi o strutture deficienti in qualsiasi altro campo (per esempio nel campo della scuola quando le strutture appunto si rivelano poco rispondenti alle necessità della società) siano poi riluttanti a rivolgere queste critiche o suggerimenti quando si tratta delle forze di polizia. E’ così avvenuto che le critiche che si sentono fare giorno dopo giorno, a ogni angolo di strada, non abbiano poi trovato una voce autorevole che le facesse giungere a chi di dovere. Sono gli uomini di cultura, è la classe politica che deve raccogliere questo patrimonio di voti, di rivendicazioni, di esperienze dirette, proprie degli agricoltori e dei pastori che vivono da vicino le vicende della delinquenza.
E’ un patrimonio che si acquisisce accostandosi al mondo dei pastori per conoscerlo sempre più a fondo. Un mondo da studiare, evitando di mitizzarlo (anche la mitizzazione potrebbe essere pericolosa perché ci porterebbe fuori strada), e con la coscienza che i suoi problemi, quindi anche il problema della delinquenza, sono tra i problemi fondamentali della Sardegna e della sua rinascita, problemi la cui soluzione deve costituire oggi una delle prove impegnative per gli intellettuali sardi. Per questo noi accogliamo con favore la proposta dell’onorevole Cardia per una Commissione che dovrebbe studiare, appunto, la situazione, per quanto riguarda la delinquenza, la lotta contro la delinquenza e le radici di questo fenomeno. Così come siamo favorevoli a tutte quelle iniziative, convegni, dibattiti, studi o altro che servano ad approfondire e popolarizzare il problema, e a fornire utili indicazioni e suggerimenti alle forze impegnate nella lotta contro la delinquenza. Potremmo, inoltre, assolvere il nostro compito fornendo, entro i limiti della nostra competenza, gli strumenti legislativi per organizzare la collaborazione dei cittadini nelle forme di cui ho parlato prima. Ma lo assolveremo soprattutto se agiremo con la coscienza che il problema della delinquenza è solo un aspetto del più vasto problema della nostra arretratezza, che è problema di elevazione morale e civile del nostro popolo, per conseguire la quale non è necessaria la mortificazione delle leggi speciali.
La rinascita, trasformando l’ambiente, farà scomparire, o attenuare, le forme tipiche della delinquenza sarda. Se noi riusciremo a fare qualche cosa per abbattere il muro della incomprensione che la omertà, la paura e la sfiducia creano intorno alle forze dell’ordine e che, accentuando il distacco dall’ambiente, rende oggi spesso inefficace la loro attività, se riusciremo ad organizzare forme di collaborazione, se creeremo una più matura coscienza del problema, io penso che avremo dato un contributo decisivo al successo della politica di rinascita”.
Il dibattito consiliare si concluse con un ordine del giorno votato quasi all’unanimità, con il solo voto contrario del consigliere del PSIUP Zucca. La Commissione rinascita fu incaricata di svolgere un’indagine sul problema.

Interventi su democrazia e repressione

Accanto agli interventi prima riportati, relativi al dibattito politico ed economico svoltosi in Sardegna nel decennio 1965- 1975, si ritiene utile proporre all’attenzione dei lettori alcuni interventi di carattere squisitamente politico fatti da Peppino Catte in Consiglio Regionale nel corso di sedute dedicate ad ordini del giorno che solo in piccola parte erano circoscrivibili nella dimensione sarda e che, in larga misura riferibili a vicende nazionali o internazionali, offrivano lo spunto per riflessioni di più ampia portata. Tutti gli interventi sono accomunati dalla medesima tensione morale che portò sempre l’intellettuale e politico socialista alla difesa dei valori della democrazia.

Tali interventi, infatti, hanno come obiettivo di fondo la denuncia delle tendenze conservatrici che si riproposero in Italia nei primi anni ’70 e la condanna totale delle dittature.
Nella seduta consiliare dell’1 dicembre 1971 Catte intervenne per illustrare un’interpellanza presentata dal gruppo consiliare del PSI in relazione ad una lettera inviata dalla preside della scuola media di Orosei (come dirigente politico del MSI) agli altri capi d’istituto in cui, secondo gli interpellanti, si voleva precostituire un alibi per le violenze fasciste di quel periodo contro il movimento studentesco e in cui si diceva che ormai la disciplina non era più un atto pedagogico, ma un problema politico e di ordine pubblico. La mattina dello stesso giorno della seduta consiliare due giovani universitari furono aggrediti e feriti durante un’assemblea della facoltà di giurisprudenza di Cagliari da elementi in gran parte estranei all’Università.
Si devono condannare nettamente – sostiene il consigliere socialista – le violenze e i loro ispiratori e complici ovunque si trovino. “Certo, nel movimento studentesco ci sono talvolta episodi di disordine, incertezze e anche violenze. Dobbiamo uscire da questa situazione, ma ci riusciremo soltanto se sapremo dare ai giovani una scuola profondamente rinnovata nei contenuti e nei metodi, aperta a tutti, veramente moderna e democratica, una scuola, insomma, che dia veramente fiducia ai nostri giovani. Nessuno può negare che per giungere a questo nuovo tipo di scuola che vogliamo, l’apporto del movimento studentesco è stato decisivo, non solo perché ha dato una nuova coscienza ai giovani studenti, un nuovo impegno, ma anche perché ha spinto la classe insegnante e la classe politica ponendole davanti alle proprie responsabilità, che sono spesso pesanti. Non c’è dubbio che questi giovani hanno ereditato da noi una scuola che è del tutto inadeguata alle esigenze della vita moderna…”
“A coloro i quali lamentano la violenza e il disordine ricordiamo che violenze molto più gravi e più numerose sono quelle che la scuola spesso ha consentito di compiere sulla coscienza dei giovani con metodi autoritari o selettivi, cioè con metodi in fondo discriminatori sul piano sociale. Perciò diciamo che indietro non si può tornare. Bisogna arrivare certamente alla normalità, ma ad una normalità democratica, propria di una scuola moderna ed alla pari con i tempi. Una scuola che risponda più adeguatamente alle esigenze di cui sono portatori i giovani. Una scuola che inserisca i giovani nella società; una scuola, oltretutto, che cominci col dire ai giovani che cos’è e che cosa è stato il fascismo; cosa che, per la verità, la scuola sorta nel dopoguerra, che dovrebbe essere antifascista, ha evitato gelosamente di fare in ogni occasione”.
In merito alla lettera prima citata, vogliamo qui riportare la presa di posizione del Provveditorato agli Studi di Nuoro: “Risulta che è stata inviata da uno dei dirigenti provinciali del partito politico missino una circolare in cui, tra l’altro, si afferma che la disciplina scolastica nei nostri istituti non è più un atto pedagogico, ma è un problema politico di ordine pubblico. La scuola della provincia di Nuoro rifiuta tale concezione, che tende a lederne gravemente la funzione ed il prestigio, e che la ridurrebbe, se fosse accettata, a livello di un luogo di sterili contese, da risolvere con la violenza e con la repressione. La scuola è sempre un fatto educativo, anche se la concreta realtà di oggi, l’insorgere di nuovi fermenti e l’affermarsi di nuove concezioni, pone problemi la cui soluzione non è facile, ma richiede la collaborazione fattiva di docenti e discenti. In tale prospettiva questo ufficio respinge la circolare e riconferma la sua fiducia nei Presidi, nei professori e negli studenti della Provincia”.
Nella seduta del 23 maggio 1972, dopo l’assassinio a Milano del commissario di polizia Calabresi, il consigliere socialista apre il suo intervento affermando che “denunciare la violenza è dovere di ogni democratico; esprimere il proprio cordoglio quando un cittadino cade vittima della violenza è un doveroso atto di solidarietà umana e civile”. Aggiunge, però, subito dopo: “Ma in questa occasione non basta esprimere solidarietà, condanna, cordoglio, per l’assassinio di un funzionario di polizia. Noi socialisti abbiamo sempre rifiutato e condannato nettamente l’uso della violenza. Il movimento operaio, va ricordato, ha sempre condannato chi pensa, con la violenza, di aprire scorciatoie al progresso sociale e civile. Ha condannato l’assassinio politico perfino come strumento per combattere i regimi dittatoriali; tanto più lo condanniamo oggi, in questo momento così importante per la democrazia italiana. Ma poiché sempre più chiaramente si rivela il disegno che si nasconde dietro gli atti terroristici, riteniamo che sia giunto il momento di chiederci che sia fatta piena luce sui responsabili, sui mandanti, sugli organizzatori di tutti questi crimini. Tutti, ormai, hanno compreso che sono in pericolo le istituzioni democratiche. Se questo è vero, come è vero, la classe politica non può disinteressarsene fino al punto da ridursi ad attendere fiduciosa i comunicati e le dichiarazioni di funzionari della polizia e dei magistrati. E non è che tali dichiarazioni manchino; anzi, nel corso della campagna elettorale venivano pubblicate da certa stampa con la stessa frequenza e con il rilievo dei discorsi dell’onorevole Fanfani e dell’onorevole Piccoli. Ma è proprio questo che ci lascia perplessi e che oggi ci spinge a chiedere che si conosca a fondo finalmente la verità, che si indaghi in tutte le direzioni, che si seguano tutte le piste, quelle nere e quelle rosse.
Lo diciamo perché noi socialisti non abbiamo paura della verità, perché non abbiamo la preoccupazione di fornire giustificazioni alla violenza e alla delinquenza politica. D’altra parte, voglio aggiungere, i fatti hanno ormai dimostrato chiaramente che le piste magari saranno due, una nera e una rossa, ma che entrambe conducono sempre ad una stessa centrale della violenza, dove si organizzano gli attentati e si persegue un certo disegno eversivo. Anche quando, seguendo la cosiddetta pista rossa, fra i protagonisti si incontrano anarchici o maoisti, sempre, tra di essi, si scoprono anche i fascisti, i provocatori, le spie e gli agenti segreti, che sono poi quelli che tendono le fila della violenza e di tutta l’organizzazione. Questo è avvenuto nel caso Valpreda e lo stesso è avvenuto anche nel caso Feltrinelli. Si è cercato in ogni modo da parte di alcuni di coloro che vengono preposti alle indagini di escludere la pista nera; ma i fatti, ostinatamente, ve li hanno sempre ricondotti. Si è voluto seguire solo la pista rossa, ma poi si è scoperto che questa, sia nel caso Valpreda che in quello Feltrinelli, era costellata di agenti provocatori fascisti. Tutto ciò è apparso chiaro, nonostante Feltrinelli in ogni covo e in ogni deposito di armi si preoccupasse di disseminare da ogni parte i suoi passaporti e le fotografie sue e quelle dei suoi familiari. La conclusione di tutto questo è che ormai l’opinione pubblica è fortemente turbata; tutti sentono che una minaccia reale incombe sulla vita della nostra Repubblica; ma bisogna sottolineare che oggi il turbamento e l’incertezza che regnano in Italia non derivano soltanto dagli episodi di violenza, che rivelano l’esistenza di un piano criminoso ai danni della nostra democrazia; derivano anche dal fatto che gli organismi dello Stato, che sono preposti alla tutela dell’ordine e alla difesa delle istituzioni, troppo spesso si rivelano incapaci di garantire la sicurezza dei cittadini, di stroncare la violenza e di respingere nettamente l’attacco dei nemici delle istituzioni democratiche. Si fa sempre più strada l’idea che l’assalto fascista è favorito da troppe connivenze e complicità su cui i fascisti possono contare dentro l’apparato dello Stato, oggi, come del resto è avvenuto nel 1922. La classe politica non può oggi, in questa situazione, assumersi la responsabilità di non vedere e soprattutto la responsabilità di non prevedere. Deve reagire ad una situazione che va deteriorandosi rapidamente. L’assassinio di Calabresi dimostra che il piano eversivo dei nemici della democrazia viene ancora portato con ostinazione avanti, ma la reazione dell’opinione pubblica, la partecipazione commossa in forme composte ai funerali del commissario ucciso di tutta la cittadinanza milanese, dimostra che i cittadini hanno sufficiente maturità e fermezza per respingere ogni provocazione. Ma occorre che il Parlamento, le forze democratiche in esso rappresentate abbiano una visione chiara del pericolo ed i mezzi necessari per affrontarlo.
Quando chiediamo un’inchiesta del Parlamento sulle condizioni dell’ordine pubblico, non chiediamo evidentemente al Parlamento di sostituirsi alle forze di polizia e alla magistratura nelle indagini sui fatti e neppure di mettere sotto inchiesta e sotto accusa questi organi dello Stato, ma di intervenire per ovviare alle insufficienze che si sono manifestate e che hanno reso l’azione repressiva nei confronti degli organizzatori della violenza piuttosto debole e tale da conseguire scarsi risultati. Occorre potenziare questa azione, e per questo occorrono alle forze di polizia uomini, mezzi ed anche armi. Noi socialisti non abbiamo mai detto che in tutti i casi gli agenti devono essere disarmati; abbiamo detto che in Italia, come del resto avviene nei paesi più civili, nelle manifestazioni pubbliche di protesta, nelle lotte sindacali non bisogna fare uso delle armi, che è cosa ben diversa. Noi crediamo che alle forze di polizia occorra soprattutto, per combattere la violenza, una coscienza democratica. Ma fino ad ora agli agenti di polizia, che sono lavoratori, figli di lavoratori, è stato concesso poco stipendio ma molta propaganda fascista; ed è questo che rende gli organi dello Stato incapaci di fronteggiare con la dovuta energia l’assalto fascista.
Oggi, potenziare gli organi che sono preposti alla difesa dell’ordine e delle istituzioni democratiche, significa spezzare tutte le complicità e le connivenze, ricercare sino in fondo i responsabili di una organizzazione che ha origini ben definite. Questo possono fare le forze di polizia, possono fare gli altri organi, ma è dovere del Parlamento rendersi chiaramente conto della situazione che stiamo affrontando e fornire tutti gli strumenti. Oggi si pone una scelta politica, le istituzioni sono minacciate da determinate forze che sono apparse responsabili di tutti gli atti di violenza…
Chi ha ucciso Calabresi? Noi non ci vogliamo sostituire nelle indagini; può darsi che si tratti della vendetta di qualche esaltato politico o di qualche delinquente, ma è forse più probabile che con Calabresi si sia voluto far tacere la voce di uno che sapeva molte cose, che non doveva parlare, come non devono parlare tutti coloro che avrebbero dovuto testimoniare nel processo Valpreda e che in un modo o in un altro sono scomparsi. Può darsi che la serie continui, e tutto questo accade perché questo disegno appare evidente, perché non possiamo mettere sullo stesso piano dei giovani esaltati, che sono strumenti inconsapevoli, con coloro che sono invece strumenti di una macchinazione che si fa contro lo Stato. Siamo giunti ad una svolta, che oggi pone di fronte alla coscienza di tutti i democratici dei compiti e dei doveri precisi. Quando chiediamo che si faccia un’indagine attraverso le forze rappresentate dal Parlamento, è perché vogliamo che si ricrei quella unità delle forze democratiche operante in senso nettamente antifascista per la difesa di una Costituzione che è antifascista. Il marchio della violenza è di carattere nettamente fascista e crediamo che in questo caso sia necessaria una unità fattiva, che porti a scoprire, a condannare decisamente i responsabili di una avventura che oggi si tenta di ripetere, ma di fronte alla quale sta il Parlamento, stanno le forze democratiche, sta soprattutto la maturità e la volontà di resistenza delle masse popolari italiane che sono sempre nella loro grande maggioranza masse antifasciste”.
Di particolare respiro l’analisi che Catte svolse in Consiglio il 1° marzo 1973, quando si discusse sul discorso pronunziato dal dott. Coco, Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Cagliari in occasione dell’inaugurazione del nuovo anno giudiziario e, in particolare, su una serie di considerazioni dallo stesso fatte sulla situazione della criminalità in Sardegna. Questo il testo dell’intervento di Peppino Catte: “Signor Presidente, onorevoli colleghi, dopo aver ascoltato gli interventi di alcuni colleghi in questo dibattito originato dalle dichiarazioni del Procuratore Generale Coco mi sembra che sia quanto mai opportuno e doveroso precisare e chiarire quale sia il significato che vogliamo dare ad una presa di posizione del Consiglio regionale.
E’ stato affermato, mi pare, che il dibattito costituirebbe una indebita ingerenza nell’operato della Magistratura, quasi un attentato alla sua autonomia. Mi sembra di poter rispondere che, semmai, c’è stata, in questi ultimi tempi, ingerenza essa è venuta non solo dal Procuratore Generale Coco ma anche da altri Procuratori Generali nella sfera che più propriamente appartiene al legislativo, con giudizi di aspra e, talvolta, irriverente critica sull’operato del Parlamento o dell’esecutivo, giudizi che si muovono, quindi, su un terreno squisitamente politico, anche se si riferiscono a temi relativi all’amministrazione della giustizia. Ovviamente non contestiamo a nessun magistrato – come a qualsiasi cittadino – il diritto di esprimere giudizi di natura politica, soprattutto su problemi che particolarmente li riguardano, ma nel caso specifico non possiamo prescindere da due ordini di considerazioni:
1) I giudizi sono stati pronunciati nel corso di una manifestazione ufficiale nella quale il magistrato, in un certo senso, parlava a nome di tutta la Magistratura. E’ per questa ragione che tali giudizi acquistano un peso ed un’autorità particolare, che non avrebbero avuto, per esempio, se fossero stati espressi in una rivista specializzata. Ne abbiamo la conferma nel rilievo che la stampa ha dato alle dichiarazioni e nella risonanza che queste dichiarazioni hanno avuto sulla opinione pubblica.
2) Il Procuratore è entrato egli stesso nel terreno del dibattito politico quando ha voluto condannare con giudizi sommari e sprezzanti, opinioni e atteggiamenti che sono stati, prima di tutto, una conquista della cultura sarda più attenta e più sensibile; che sono diventati poi uno dei fondamenti e dei principi ispiratori dell’azione politica del Consiglio regionale e del Parlamento italiano; che costituiscono oggi, per noi, una delle giustificazioni storico–politiche e la base rivendicativa per una nuova battaglia autonomistica di importanza storica, che tutte le forze politiche, autenticamente autonomistiche, sono chiamate ad affrontare in questo particolare momento.
E’ veramente strana la pretesa di coloro i quali contestano al Consiglio regionale il diritto e il dovere di riaffermare, energicamente, alcuni dei principi ispiratori della propria politica, nel momento in cui tali principi vengono contestati con una presa di posizione chiaramente polemica, il cui significato politico è sottolineato ed accresciuto oltre che dalla sostanza stessa dei giudizi, dall’autorevolezza del magistrato e dalla solennità dell’occasione in cui i giudizi sono stati pronunciati, e, infine, dalla risonanza che essi hanno avuto nell’opinione pubblica. Troviamo naturale il fatto che un magistrato esprima giudizi politici, soprattutto su questioni attinenti all’amministrazione della giustizia, perciò non ci scandalizziamo quando i magistrati fanno questo nelle loro associazioni, sulla stampa, o in pubblici dibattiti. Ne hanno pienamente diritto, come del resto ne hanno diritto tutti i cittadini; semmai ci scandalizziamo quando una parte di essi, mentre in manifestazioni ufficiali, solenni e quindi parlando a nome di tutta la magistratura, affermano anche in forma vivace e polemica nei confronti della classe politica i propri convincimenti e i propri orientamenti politici, negano poi, ad un’altra parte della Magistratura, il diritto di esprimere (e si badi in sedi non ufficiali) altri orientamenti, di seguire altri indirizzi e, per esempio, il diritto di affermare l’esigenza di interpretare le norme del codice alla luce della Costituzione.
Soprattutto ci sentiamo molto perplessi quando da un alto magistrato viene rivolto ai giovani magistrati democratici l’invito ad andarsene perché essi ormai costituirebbero, in seno alla Magistratura, la mala pianta e tale invito viene rivolto in nome della apoliticità, quasi che non si sapesse che la apoliticità, in questo come in altri casi, si risolve soltanto, come giustamente osserva il senatore Branca, in un voler fermare l’orologio della interpretazione al tempo in cui le leggi sono state emanate, e questa è, evidentemente, una pretesa politica che nasce con un carattere nettamente conservatore.
Non di dibattiti come questo che ha luogo nel Consiglio dovrebbero preoccuparsi quanti hanno a cuore il prestigio e l’indipendenza della Magistratura, ma di altri fatti, di quelli che ormai si ripetono troppo spesso e che rivelano lo stato di crisi e di malessere che regna nell’amministrazione della giustizia nel nostro Paese, e fra questi fatti vorrei ricordare, appunto, le recenti prese di posizione dei vari Procuratori generali che hanno avuto rilievo e significato chiaramente politici in perfetta sintonia con le tendenze conservatrici e con gli indirizzi reazionari e repressivi affermatisi nella vita politica italiana in questi ultimi tempi.
Il discorso del Procuratore Coco, del resto, si inquadra perfettamente con gli orientamenti che i vari Procuratori, quasi obbedendo ad una direttiva comune, hanno manifestato con l’insistere sulla necessità di nuove misure repressive, quali il fermo di polizia, con la polemica con i giudici democratici, con l’ignorare la violenza fascista e la legge che reprime il fascismo, con il trascurare la violenza, gli omicidi bianchi nelle fabbriche.
Io credo però che non sia nostro compito, in questa sede, attardarci a confutare questa o quella tesi del Procuratore Generale; sono tesi che nascono da una concezione arcaica meramente repressiva che non vede l’uomo in connessione radicale con l’ambiente e le condizioni strutturali della società in cui vive ed opera, e che quindi non vede o sottovaluta le ragioni causali o concausali nella produzione, morfologia ed evoluzione dei fenomeni della criminalità. Una concezione di questo genere, ispirata ad un chiuso conservatorismo che, a giusto titolo, può richiamarsi a De Maistre la migliore cultura sarda che ha indagato sui fenomeni del banditismo ha superato ed abbandonato da tempo. Il Consiglio regionale l’ha nettamente respinta in occasione dell’indagine sulle zone interne.
La Commissione Parlamentare che ha affrontato il problema con metodologia scientifica e con rigore di osservazioni e rilievi analitici sul posto non poteva che giungere ad una interpretazione moderna ed avanzata del problema sardo e alle conclusioni che tutti conosciamo.
Se ci occupiamo di certe tesi del Procuratore Generale non è certamente perché ad esse riconosciamo alcuna validità sul piano culturale, ma perché, per le ragioni che abbiamo detto in precedenza, esse vengono ad assumere un preciso rilievo politico, particolarmente nell’attuale situazione; in primo luogo in molti settori dell’opinione pubblica, e ciò particolarmente fra le forze addette alla repressione, queste tesi, diffondendosi e senza il sostegno per lo più di una preparazione culturale, ingenerano equivoci e pregiudizi pericolosi, soprattutto per quanto riguarda il falso dilemma, che spesso viene posto, di riforme o repressione.
Si tratta di un falso dilemma, perché nessuno, fra quanti sostengono la necessità di riforme nel vecchio mondo pastorale, nessuno ha mai negato o sottovalutato la necessità e l’urgenza di una valida opera di repressione della criminalità; nessuno ha mai considerato il delinquente come una vittima dell’ambiente arretrato da trattare, quindi, con indulgenza; nessuno, infine, ha pensato di poter stabilire un rapporto meccanico fra povertà e delinquenza sostenendo che i responsabili di assassini o di ricatti sono stati spinti al crimine dalla miseria o dall’urgente necessità di provvedere al proprio sostentamento. E neppure attendiamo da un ammodernamento delle strutture arcaiche del mondo pastorale la scomparsa automatica della delinquenza; sappiamo molto bene che anche nei paesi più ricchi e più evoluti esiste ed esisterà sempre la delinquenza.
Sappiamo però che in una Sardegna in cui siano scomparse o attenuate miseria ed arretratezza potranno scomparire quelle forme di delinquenza che all’arretratezza sono strettamente connesse, le cui gesta turbano profondamente e paralizzano la vita sociale dell’Isola, e che perciò ogni volta suonano condanna per le classi dirigenti che certi mali non sono riuscite a sanare e certi problemi non hanno voluto o saputo risolvere. La particolarità del banditismo sardo non sta soltanto nel grave turbamento che provoca nella vita sociale, di cui denuncia l’arretratezza, e non sta, è già stato rilevato, nel numero di delitti che non è superiore al numero dei reati che si verificano altrove; ma sta anche nelle particolari forme e metodi di repressione che la lotta contro il banditismo rende necessario.
Infine, è bene ricordarlo, tale particolarità si manifesta nella imponenza dei mezzi finanziari che lo Stato è costretto a mettere a disposizione per tale lotta. Sappiamo che lo Stato spende ben 17 miliardi ogni anno; più del doppio, è stato calcolato, di quelli che si sarebbero dovuti spendere per combattere forme di criminalità analoghe a quelle che si incontrano in altre regioni. Con le spese aggiuntive, imposte dalla repressione del banditismo sardo e sostenute, ormai, da tanti anni, quanti piani della pastorizia si sarebbero potuti finanziare?
E’ questa una considerazione che deve essere tenuta presente per valutare la convenienza e la necessità di seguire varie forme di intervento e non soltanto di affermare la necessità di misure di carattere repressivo. Ma vogliamo anche aggiungere un’altra considerazione: con una concezione unilateralmente autoritaria e repressiva si compromette, persino, l’efficienza e la funzionalità dell’azione e della organizzazione repressiva, perché da tale concezione discendono, inevitabilmente, metodi che rendono difficile la collaborazione con le popolazioni, come del resto si è dimostrato con la esperienza del periodo fascista, e le cifre e le statistiche stanno a dimostrarlo ed è apparso chiaro anche, recentemente, con la esperienza infausta e negativa dei baschi blu, i quali tutto avevano affidato a questi metodi, a questa specie di ideologia della repressione indiscriminata. Ritengo che alla radice della scarsa efficienza dell’azione repressiva siano da indicare anche questi limiti culturali che si fanno sentire nelle concezioni di coloro che decidono dei metodi e degli indirizzi dell’azione repressiva.
Cose, tutte queste, di cui si è dibattuto, in altre occasioni, in Consiglio, e che oggi ritengo opportuno richiamare alla memoria di coloro che insistono, come il Procuratore Generale, soprattutto sulla necessità di misure repressive e vedono nel discorso sull’ammodernamento delle strutture arretrate sarde un alibi pericoloso, una diversione artificiosa e, persino, com’è affermato, ed è un’affermazione estremamente grave e perfino offensiva, vedono una certa omertà intellettuale e sentimentale.
Ma la ragione fondamentale per cui il Consiglio regionale deve prendere posizione sulle dichiarazioni del Procuratore Generale Coco sta nel fatto che tali dichiarazioni negano sostanzialmente l’impostazione ed i termini delle soluzioni prospettate dalla Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della criminalità in Sardegna, definendone la impostazione né fondata né appropriata ed infarcita di troppi luoghi comuni, superficiali o erronei o faziosi, e quasi imbevuti di una certa omertà intellettuale o sentimentale e respingendone sia le premesse che le conclusioni.
Come si vede, si tratta di una stroncatura espressa in un linguaggio altezzoso e perfino irriverente ed offensivo, non solo nei confronti della Commissione parlamentare, ma, è evidente, anche del Consiglio che certe tesi aveva sostenuto già da lungo tempo. Se si considera che le conclusioni della Commissione parlamentare di inchiesta sono la premessa e la giustificazione per le proposte di legge già presentate al Parlamento e dirette ad ottenere il rifinanziamento del Piano di rinascita, e costituiscono, quindi, anche la base storico-giuridica, il fondamento politico per la battaglia autonomistica nella quale ci sentiamo impegnati per ottenere l’approvazione delle proposte di legge, a nessuno può sfuggire la gravità della presa di posizione del Procuratore Generale.
Qualcuno potrebbe osservare che a dare peso alle tesi del dottor Coco sarà proprio il dibattito del Consiglio regionale. Rispondiamo che un peso politico le dichiarazioni lo hanno per l’autorevolezza del magistrato e della sede in cui le tesi sono state enunciate, per il rilievo che esse già hanno avuto presso l’opinione pubblica. Perciò, il Consiglio non può tacere. Sulla correttezza o meno delle dichiarazioni si pronunceranno gli organi della magistratura ma il Consiglio deve pronunciarsi prima di tutto per un atto di doverosa solidarietà con la Commissione parlamentare, la cui opera e le cui proposte rappresentano veramente una tappa di importanza storica nella vita del popolo sardo, per le nuove prospettive che esse aprono alla nostra Isola.
In secondo luogo le dichiarazioni del dottor Coco rappresentano un grave colpo, ed obiettivamente, non credo intenzionalmente, un cattivo servizio per la causa autonomistica e per la battaglia rivendicativa che stiamo per intraprendere, perché mette in dubbio e cerca di distruggere la giustificazione ed il fondamento storico-politico della rivendicazione stessa. E questo noi non possiamo permetterlo, altrimenti il nostro atteggiamento potrebbe apparire debole e pavido, ed in ultima analisi autolesionistico. Siamo anzi convinti che la nostra protesta deve essere chiara e ferma e deve anche costituire l’avvio per tutte le forze politiche progressiste per una azione immediata, vasta ed energica per la riaffermazione solenne e la divulgazione della importanza storico-politica dell’opera e delle conclusioni della Commissione parlamentare, così che esse diventino l’impegno di tutti i sardi perché si traducano in viva realtà le prospettive indicate dalla stessa Commissione, e perché le proposte di legge formulate da quest’ultima, dibattute e perfezionate dalle forze politiche isolane, corrispondano pienamente ai bisogni del popolo sardo ed alla particolarità dei suoi problemi. Questa è la proposta che i socialisti avanzano e si augurano che possa trovare espressione in un documento che interpreti la volontà delle forze politiche disposte a portare avanti la battaglia autonomistica”.
L’ultimo di questa serie di interventi è quello che Catte fece nella seduta consiliare del 14 settembre 1973, in occasione della discussione sul colpo di stato in Cile, che proprio in quei giorni portò all’abbattimento del governo di unità popolare guidato dal socialista Salvador Allende e alla dittatura sanguinaria del generale Augusto Pinochet, appoggiato dagli Stati Uniti d’America.
“Non è la prima volta – esordisce il consigliere nuorese – che il Consiglio è chiamato ad esprimere il proprio sdegno e la propria protesta per delitti commessi contro la libertà e l’indipendenza dei popoli. Ed è un fatto altamente significativo, che esalta la dignità del nostro istituto autonomistico, la manifestazione di una piena solidarietà per coloro che lottano e che muoiono per l’affermazione di quei valori e di quei principi che hanno animato i momenti migliori della nostra storia, che hanno dato vita alle battaglie vittoriose del nostro risorgimento, della resistenza ed anche della nostra autonomia.
Abbiamo espresso la nostra solidarietà ripetutamente per i fatti del Vietnam, per quelli di Praga, ed oggi non possiamo non manifestare il nostro sentimento di dolore, di partecipazione, per quello che avviene in Cile, che è estremamente grave e che è anche ricco di insegnamenti per coloro i quali credono nella libertà, nello sviluppo della democrazia, nei valori del socialismo.
Sappiamo tutti quale è la condizione dei paesi sud-americani, oppressi dalla miseria e dal sottosviluppo, ma, più ancora, dallo sfruttamento colonialista, dalla presenza di classi dirigenti corrotte e di eserciti che costituiscono una vera e propria iattura per quei popoli, una vera e propria lebbra dalla quale questi popoli non riescono a liberarsi, eserciti che formano oggi cosche militari al servizio di latifondisti e dei servizi segreti americani”.
“La colpa di Allende è stata quella di essere un vero democratico, di essere un socialista, di volere operare realmente una trasformazione delle condizioni di vita del suo popolo”.
“Forse in Cile sta incominciando una nuova fase nella lotta dei popoli sudamericani. Forse nel mondo, proprio in nome di questo ideale del socialismo dal volto umano, attraverso esperienze maturate in condizioni storiche diverse, sta iniziando un’epoca diversa”.
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